Sullo sfondo di un maniero appenninico circondato da una coltre di neve, l’imperatore Enrico IV, supplice, affronta i rigori dell’inverno e si umilia al cospetto del papa per ottenerne il perdono; papa Gregorio VII, forse senza troppa convinzione, accetta di perdonare il sovrano penitente dopo essersi consultato con altri due grandi dell’epoca che si trovavano al suo fianco: l’abate Ugo di Cluny, padrino di battesimo del sovrano e propenso alla mediazione tra i due rivali, e la contessa Matilde di Canossa, tenace alleata del papato e detentrice di ampi poteri nell’ambito di un distretto signorile che abbracciava la parte centro-settentrionale della penisola italica.



La scena, svoltasi nel gennaio 1077, fa (faceva?) parte dei ricordi scolastici di molti ed è entrata nell’immaginario collettivo. Questi avvenimenti lontani vengono ora rievocati da due mostre di grande prestigio: Matilde di Canossa, il papato, l’impero. Storia, arte, cultura alle origini del romanico (Mantova, 31 agosto 2008-11 gennaio 2009, con una sezione a San Benedetto Po dedicata all’abbazia di Polirone) e Matilde e il tesoro dei Canossa, tra castelli e città (si svolge a Reggio Emilia, con una sezione staccata a Canossa, nelle stesse date). Gli eventi di Mantova e Reggio Emilia, che si annunciano di grande interesse per la bellezza e la quantità dei pezzi originali esposti, seguono di due anni l’altrettanto notevole mostra che ha avuto luogo in Germania, a Paderborn, nel 2006: Canossa 1077. Erschütterung der Welt. Geschichte, Kunst und Kultur am Aufgang der Romanik, il cui titolo, nella sua seconda parte, è rievocato letteralmente in quello della mostra mantovana.



L’incontro di Canossa come «sconvolgimento del mondo», quindi, o come «disincanto del mondo» per richiamare anche un recente libro dello storico tedesco Stefan Weinfurter (Canossa. Die Entzauberung der Welt). Perché l’umiliazione dell’imperatore al cospetto del papa fu interpretata da molti contemporanei come uno “sconvolgimento” del normale ordine del mondo?

Com’è noto, il cristianesimo porta con sé una netta distinzione della sfera religiosa da quella temporale, dal momento che in ambito cristiano un sovrano non può mai essere o diventare un dio, né essere considerato di origini divine o discendente di una divinità. La divinizzazione del potere politico è quindi intrinsecamente estranea alla cultura cristiana. Tuttavia, a partire dalla libertà religiosa e dall’integrazione delle strutture ecclesiastiche nel tessuto dell’organismo imperiale volute nel IV secolo dall’imperatore Costantino, si sviluppò una concezione sacrale, carismatica, dell’imperatore cristiano destinata a una stagione storica sorprendentemente lunga. Un ruolo importante nell’elaborazione di una vera e propria teologia dell’impero cristiano fu svolto in quegli stessi anni dal vescovo Eusebio di Cesarea, che interpretò la monarchia terrena come immagine e riflesso di quella celeste. Da qui il ruolo dell’imperatore nella protezione e nel governo della Chiesa, ben esemplificato dalla convocazione del concilio di Nicea nel 325 da parte di Costantino.



Una tale concezione ebbe il suo esito istituzionale più coerente nella cristianità bizantino-slava, ma caratterizzò anche l’Occidente, soprattutto fino all’XI secolo (ed entro certi limiti anche molto oltre). L’imperatore, insomma, non era sentito come un’autorità laica nel senso moderno e questo spiega perché sia inesatto considerare quella che chiamiamo per consuetudine “lotta per le investiture” uno scontro tra Stato e Chiesa. Perché il sovrano deteneva un’autorità che proveniva da Dio e custodiva un ordine terreno che era riflesso di quello trascendente. Proprio questo è il significato simbolico racchiuso nel manto astrale di Enrico II (1002-1024), custodito presso il museo diocesano di Bamberga, una fedele riproduzione del quale è esposta alla mostra di Mantova. Dal punto di vista istituzionale un’importante conseguenza di questa visione era il rapporto privilegiato del sovrano con i vescovi e il ruolo determinante svolto dal primo nella nomina dei secondi.

Enrico III (1039-1056) si servì delle sue prerogative in fatto di elezioni episcopali per promuovere la riforma ecclesiastica, elevando alla dignità episcopale chierici vicini agli ambienti riformatori; fu per intervento del medesimo sovrano salico che la riforma giunse anche a Roma (dove da lungo tempo erano prevalse forze particolaristiche): nel 1046 Enrico III depose tre antipapi in lotta tra loro, ponendo sul trono di Pietro un ecclesiastico tedesco, Clemente II (1046-1047). Era l’inizio della collaborazione tra la corte imperiale e papi di origine tedesca, grazie alla quale si rafforzarono l’autorità e l’universalità del papato.

Gregorio VII (1073-1085) fu il primo a incrinare questa tradizione “sinfonica” portando l’idea di riforma della Chiesa a conseguenze fino ad allora difficilmente prevedibili: egli agì su due piani, da un lato cercando di imporre forme di esercizio del primato romano che provocarono un diffuso malcontento dell’episcopato, dall’altro sferrando un deciso attacco all’aura di sacralità dell’imperatore – nel frattempo Enrico IV (1056-1106) era succeduto al padre Enrico III. Ne seguì uno scontro tra i due vertici della cristianità che lacerò le coscienze dell’epoca e nel corso del quale il papa poté avvalersi del sostegno politico e militare di Matilde di Canossa.

La «rivoluzione papale» (Paolo Prodi) fu determinante nella storia della Chiesa e della civiltà europea. Sulla lunga distanza l’indipendenza della Chiesa dal potere temporale ne uscì rafforzata, così come si precisò ulteriormente la distinzione tra l’ambito spirituale e quello temporale – è facile notare che si tratta di elementi connessi al concetto di libertà proprio della cultura occidentale. Al contempo venne progressivamente affermandosi in Occidente una prospettiva dualistica di separazione chierici/laici, spirituale/temporale che pose le premesse per la secolarizzazione dell’autorità politica (Cesare Alzati).

Vale la pena di continuare a riflettere su avvenimenti così carichi di conseguenze, pur tenendo alto il livello di guardia contro le “attualizzazioni” troppo spinte. Il rischio di cadere in gravi anacronismi è sempre dietro l’angolo.

Ivo Musajo Somma