Secondo le categorie della cultura dominante a tutti i livelli – da quelli accademici universitari, fino a quelli dei manuali scolastici, a quelli dei mass media – si ha la sensazione che la storia della Chiesa sia sostanzialmente la storia di una istituzione inguaribilmente reazionaria, controcorrente nel senso deteriore, che non sa assecondare i ritmi della evoluzione intellettuale, morale, politica, sociale ed economica. La storia della Chiesa sarebbe, soprattutto quella recente, la storia di una serie di occasioni mancate, ed inoltre sarebbe la storia di una ferrigna egemonia a carattere integralistico posta su tutti gli aspetti della vita culturale e sociale. Da questo punto di vista si comprende il terribile equivoco su una età come quella medievale, considerata, anche nel linguaggio comune, come qualche cosa di assolutamente negativo; “roba da medioevo” si dice oggi da parte di molti, anche da parte di sinceri cattolici, sinceri come sentimento ma non come mentalità.



La ragione di questa riduzione della Chiesa a istituzione culturale, politica, sociale ha le sue radici in quel grande rivolgimento di carattere antropologico e culturale che caratterizza l’età moderna e che dall’età moderna rilegge anche l’età pre-moderna, brutalmente definita da rivoluzionari francesi “l’ancien regime”, il vecchio ordine delle cose. In che cosa consiste questo rivolgimento di tipo antropologico e culturale? Consiste nella messa al centro della vita personale e sociale dell’individuo che si considera autonomo, autosufficiente, autoreferenziale, che non ha bisogno di nessun rapporto che lo costituisca nella sua identità e lo promuova nella realizzazione della sua personalità. Il progetto antropologico moderno e contemporaneo è quello dell’auto realizzazione dell’uomo nell’esercizio rigoroso della sua capacità, del suo potere intellettuale, conoscitivo, scientifico, morale, sociale, politico. L’uomo si realizza da solo o al massimo in quelle solidarietà che egli costituisce e crea: il proletari di tutto il mondo, piuttosto che i giacobini o i fascisti, o coloro che confidano incrollabilmente nel reich o che ritengono che la scienza sia la panacea di tutti i mali, che è l’ideologia attualmente al potere in tutto il mondo. Sono solidarietà create dall’individuo, che lo aiutano nella realizzazione di questo potere. Non solo lo aiutano, ma qualche volta lo sostituiscono, o meglio, è questa individualità di massa, è questo soggetto sociale il vero individuo, come ci ha insegnato gorgheggiando nel suo tipico modo pseudo culturale, Jean Jaques Rousseau.



In questa impostazione evidentemente la Chiesa non trova posto, non per le conseguenze presunte di carattere culturale, sociale e politico, ma non trova posto perché non ha più spazio una realtà che si proclama testimone dell’avvenimento di Cristo che è la Via, la Verità e la Vita, che cioè si proclama l’annunciatrice di quella redenzione senza la quale l’uomo non può diventare se stesso.

È dunque una incompatibilità di fondo, sul piano direi della concezione ultima dell’uomo, della persona, della vita, della società e della storia. Un uomo che non ha bisogno di salvezza non può che respingere una realtà che proclama la necessità della salvezza e la proclama come realizzata pienamente nel mistero della passione, della morte, della resurrezione di Gesù di Nazareth, figlio dell’uomo e figlio di Dio. Quindi l’ottica non è quella delle “conseguenze” ma quella dei “principi”. Si vede chiarissimamente questo confronto a tutto campo in quel Papa dell’inizio dell’età contemporanea che ha saputo leggere questa alternativa antropologica o culturale fra la modernità laicistica e la tradizione cattolica che è stato Pio IX, infamato da più di due secoli esattamente perché ha colto la radice della questione nel suo Sillabo del 1864.



Allora, qual è il filo conduttore della storia della Chiesa, della storia che la Chiesa vive e di cui prende coscienza e che cerca di comunicare attraverso le espressioni di quella sana storiografia cattolica che comincia all’inizio dell’età moderna e non è ancora finita, fortunatamente, anche se nel mondo cattolico e nella cosiddetta storiografia cattolica c’è stata una forte interferenza della mentalità laicista che ha prodotto delle storiografie della Chiesa cattolica fatte da cattolici, ma sostanzialmente condotte con criteri di carattere laicistico?

Val la pena di ricordare che l’impostazione storiografica di carattere individualista, razionalista, laicista o fideista è alla base delle Centurie di Magdeburgo, che sono il primo tentativo di rileggere tutta la storia della Chiesa a partire dal protestantesimo radicale, quindi a partire dall’idea che la Chiesa storica, reale, la Chiesa che vive nel mondo, non solo è negativa perché luogo di corruzione, di tradimento della verità evangelica, ma soprattutto che la Chiesa non deve esistere perché rappresenta una non necessaria mediazione fra Dio e l’uomo. L’unica mediazione possibile sarebbe invece la parola scritta e interpretata dal singolo. Ad essa si contrappone la straordinaria storia della Chiesa scritta dal gesuita cardinale Cesare Baronio, che tutta la storiografia cattolica del XIX e XX secolo ha letto come l’antesignano di una autentica storiografia cattolica. Hubert Jedin, il grande storico del Concilio di Trento, ha dedicato pagine straordinarie a questo evento e un piccolo, significativo saggio sulla figura del Baronio fondatore di una autentica storiografia ecclesiale.

Qual è l’identità fondamentale che la Chiesa gioca in ogni momento della sua storia, pur nel variare della condizioni in cui essa vive o dei condizionamenti che subisce? È la coscienza di un popolo. La Chiesa concepisce se stessa come un popolo che è generato dallo Spirito del Signore, crocifisso e risorto, e quindi rappresenta una realtà di carattere speciale, non riducibile a nessun riferimento storico, culturale, antropologico. Plinio, con l’occhio acuto dell’ordinatore, scriveva all’imperatore: è un popolo di terzo genere, diverso dai due grandi popoli che si contendevano la vita della società: il popolo degli uomini liberi romani e il popolo-non-popolo dei barbari. Un popolo di terzo genere, perfettamente inserito nella realtà sociale, ma che non ha una sua identificazione ultima in una ragione di carattere sociale: «non c’è più né greco né barbaro, né schiavo né libero, né uomo né donna, perché voi tutti siete un essere solo, in Cristo Gesù», ha detto san Paolo.

Questo popolo, cosciente della sua «identità sacramentale» come avrebbe detto il Concilio Ecumenico Vaticano II, si impianta e vive nella storia investendo gli uomini di quel tempo e quindi di ogni tempo: i problemi, i condizionamenti, le ansie, le gioie, i dolori dell’umanità come tale. È un popolo che vive nella storia, pienamente inserito nella storia, ma che pone nella storia un annunzio che è l’espressione della sua novità di vita, della sua communio come nei primi secoli diceva di sé, cioè di essere una communio vivente.

Questo popolo, consapevole della sua identità sacramentale, ha coscienza della inderogabile necessità di dare a questa identità sacramentale una concretezza storica, carnale: è il corpo storico di Cristo, come il corpo dell’uomo Gesù di Nazareh è il corpo del figlio di Dio incarnato. Questa presenza, questa presenza sociale è caratterizzata da tre grandi dimensioni che sono assolutamente evidenti fin dai primi giorni della cristianità e che arrivano, senza soluzione di continuità, fino ai giorni nostri.

Questo popolo è presente nel mondo, incontra gli uomini per annunziare agli uomini quella verità di umanità e di salvezza che l’uomo desidera e non può darsi con le sue mani. Quindi, è un popolo che vive la missione come dimensione fondamentale; senza tenerla presente non si può capire nessun gesto della vita ecclesiale e quindi non si può giudicare la correttezza o la scorrettezza di gesti posti da singoli cristiani, come da gruppi cristiani, come da una comunità diocesana o da una Chiesa nazionale o, addirittura, dalla stessa Chiesa universale. Il criterio di giudizio è sempre quello della missione: quello che è stato compiuto ha incrementato la missione oppure non l’ha incrementata ma ha reso più vulnerabile la Chiesa nei confronti della mentalità dominante?

Il filo di interpretazione profondo della storia della Chiesa è la missione, una missione che si sostanzia in secondo luogo di una capacità di cultura. Questo popolo, infatti, contiene una concezione autentica – Giovanni Paolo II diceva una concezione adeguata – dell’uomo e della realtà e quindi porta nel mondo dei criteri di conoscenza, di giudizio, di comportamento assolutamente originali, che aprono il confronto, il dialogo, la possibilità di valorizzazione o di rifiuto dei criteri di giudizio o di comportamento che ogni realtà, culturale e sociale della storia dell’uomo mette in campo. Quindi una cultura che nasce dalla fede, che apre il confronto con le culture mondane, ma che soprattutto si esprime in quella straordinaria fioritura di cultura della fede che ha dato le grandi espressioni culturali, teologiche, filosofiche, artistiche che accompagnano la vita della Chiesa in ogni età della sua storia, raggiungendo vertici inarrivabili.

Accanto alla cultura, la capacità di carità, quindi di condivisone della vita degli uomini in qualsiasi condizione e sotto qualsiasi cielo e in qualsiasi difficoltà. Questa capacità di condivisione ha determinato, nella storia, un punto di reale novità sociale in grado di confrontarsi e di contestare qualsiasi principio di socialità che peschi i suoi criteri non nel rispetto assoluto della persona e dei suoi diritti inviolabili, ma in considerazioni di carattere strettamente ideologico o politico.

In questo movimento – la Chiesa, come movimento missionario caratterizzato da cultura e da capacità di carità – sta la forza di inculturazione della fede. La Chiesa ha contribuito a creare momenti di civiltà in cui i cristiani hanno dato il loro contributo originale, qualche volta prevalente sul piano qualitativo; penso alla grande stagione medioevale. Ma la creazione di una civiltà è sempre espressione del tentativo, del sacrificio, della positività o della negatività di uomini o di gruppi umani; non è una deduzione dalla fede. Chi pensa alla cristianità come a una deduzione dalla fede pensa secondo l’ottica del totalitarismo marxista, nazista, laicista, tecnoscientifico.

La fede fa nascere l’avventura della civiltà e in questo senso la Chiesa è sempre stata singolarmente libera da ciò che i cristiani avevano prodotto; non esiste nessuna forma di realizzazione del cristianesimo nella storia che faccia corpo in modo essenziale con la natura del cristianesimo. Per questo la Chiesa è forte e orgogliosa di tutti i successi che storicamente ha avuto e singolarmente consapevole dei limiti che i suoi figli possono avere vissuto nelle varie fasi della storia (in questo senso di comprendono le “richieste di perdono” di Giovanni Paolo II) e pertanto sempre costantemente protesa ad attuare la propria missione qui ed ora e per il futuro.

Io credo che questo sia il filo d’oro della storia della Chiesa, ma è anche la vera, grande ermeneutica della storia della Chiesa. Se ci si mette da questo punto di vista, come io tento di mettermi da una trentina di anni, non si fa nessuna indebita sacralizzazione e nessuna indebita criminalizzazione. Lo storico deve riconoscere la storia della Chiesa così com’è: degli uomini, dei pastori, dei gruppi sociali, delle comunità la cui azione va letta dal punto di vista della missione, della carità, della cultura, individuando fattori di maggiore o minore coerenza ideale dei gesti con i principi che si vivevano e quindi non si potevano non affermare.

Un’ultima considerazione vorrei fare; è così ovvia che provo vergogna a farla, ma, vedendone l’assenza in tanta storiografia e in tanta pubblicistica, vi sono costretto. Leggere la storia della Chiesa dal 1600 in poi come se la Chiesa fosse nella stessa posizione che ha avuto dall’editto di Costantino fino al 1600, vuol dire non avere il minimo di percezione del grande rivolgimento che ha dato luogo alla “modernità”. La Chiesa, dal 1600 alla fine del secolo XX, vive una condizione di “resistenza”; non è che la Chiesa si opponga alla modernità ma, come ho detto e scritto tante volte, è la modernità che si oppone alla Chiesa. La Chiesa, dunque, si trova costretta a resistere al progetto di tipo antropologico, ateistico, razionalista, scientista, totalitario, mostrando che quello non è l’unico modo di concepire l’uomo e quindi non è l’unico modo di vivere la società.

Pagine straordinarie di questa resistenza ci sono consegnate nel magistero sociale della Chiesa moderna, che comincia con Gregorio XVI e giunge fino al compiersi della modernità alla fine del XX secolo, con la Centesimus annus di Giovanni Paolo II. Tale magistero dimostra che la storia della Chiesa non può prescindere dall’ottica che ho sopra ricordato della grande “resistenza”. Essa non è una resistenza ideologica o intellettualistica, ma la difesa della vita concreta del popolo di Dio, fatto dalle famiglie, dalle Parrocchie, dagli ordini religiosi, dalle confraternite, dai movimenti che la Chiesa moderna ha saputo creare; era la vita nuova e diversa del popolo cristiano che faceva resistenza al progetto ideologico, massificante, totalitario. Questa resistenza di base popolare trovava poi nel magistero sociale dei Papi una grande indicazione e un grande conforto, che la vita del popolo cristiano verificava poi nel concreto.

Io ho la convinzione, da me ampiamente sperimentata nei miei studi e nelle mie produzioni, che se ci si mette da questo punto di vista si capisce bene la storia della Chiesa, la storia della società e si trovano magari spunti per confronti positivi e per individuare, nel tessuto della storia, inedite collaborazioni che hanno reso possibile dare un aiuto sostanziale al bene dei popoli in quel determinato momento.