«In modo lento ma inarrestabile si ricostituivano i vecchi ordinamenti, però allo stesso tempo era ancora possibile parlare e scrivere liberamente… Si protestava energicamente, eppure si poteva protestare soltanto contro chi non teneva in nessuna considerazione le proteste… La nave stava lentamente affondando, ma ai passeggeri era permesso gridare che stava affondando». Così Havel riassume l’atmosfera seguita all’invasione sovietica della Cecoslovacchia nell’agosto 1968. Nel suo drammatico discorso all’indomani dei colloqui sovietico-cecoslovacchi che sancirono la permanenza “temporanea” delle truppe del Patto di Varsavia sul territorio nazionale, Dubcek aveva parlato della necessità di una «rapida normalizzazione della situazione nel paese e del suo consolidamento», introducendo due termini che avrebbero dato il nome all’epoca che stava per cominciare, nella quale si inserì la tragedia di Palach.
Jan nacque l’11 agosto 1948 in una famiglia di piccoli commercianti di Vsetaty, un paesino a nord di Praga. Il padre, socialista e fervente patriota, gli infuse l’amore per la storia e per gli eroi patri e lo educò secondo principi saldi. Jan fu battezzato nella Chiesa evangelica dei Fratelli Boemi, frequentata dalla madre.
Terminate le superiori, Jan si immatricolò inizialmente alla facoltà di economia, per passare poi a filosofia. Ai compagni dello studentato sembrava «uno un po’ all’antica», che ricordava gli eroi-pionieri dei libri di lettura, ma era capace di creare un clima amichevole e franco. Disordinato e assorto nelle letture, preferiva studiare nottetempo ed evitare la crapula studentesca. Dopo aver vissuto il fallimento degli scioperi dell’autunno ’68, maturò nel giovane la convinzione che era necessaria un’azione forte, capace di ridestare l’opinione pubblica. Agli inizi del gennaio ’69 scrisse una lettera al leader studentesco L. Holecek in cui proponeva di occupare la sede della Radio e da lì diffondere un appello per l’abolizione della censura e per sostenere Smrkovsky, il presidente del parlamento. Holecek non rispose (il foglio finì in mano alla polizia e solo 40 anni dopo è stato ritrovato e pubblicato dallo storico P. Blazek in un libro appena uscito).
Solo a questo punto Jan decise il gesto estremo. Il 16 gennaio scrisse le lettere d’addio firmate “La prima fiaccola”: «Poiché i nostri popoli si trovano sull’orlo della disperazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la popolazione con questo gesto». Seguivano due richieste: «L’abolizione immediata della censura e l’interdizione delle Zpravy», il notiziario filosovietico. Infine l’avvertimento secondo il quale i volontari del fantomatico gruppo (si trattò solo di tattica politica: le “fiaccole” che seguirono non conoscevano Palach) erano pronti a darsi fuoco a scadenze regolari. Poi andò in centro, imbucò le lettere, mangiò un boccone alla mensa studentesca e si diresse verso il Museo Nazionale dove, presso la fontana, si cosparse di liquido infiammabile e si diede fuoco. Mentre lo portavano in ospedale ripeteva che non era un suicida ma di averlo fatto «per protestare contro quel che succede qui, contro la mancanza di libertà di parola e di stampa». Dopo tre giorni morì. Seguirono manifestazioni silenziose e appelli televisivi a non ripetere il gesto, mentre i politici si tennero in disparte, temendo di irritare Mosca. Il corteo funebre si snodò in un silenzio surreale nel cuore della capitale, accompagnato da migliaia di cittadini.
Il gesto supremo e terribile – qualcuno ha detto sproporzionato – di Palach increspò solo superficialmente le acque di un paese che veniva trascinato verso una nuova stagione di gelo: monsignor Halik ha ricordato che «Palach volle richiamare la società all’autocoscienza… . Non mutò nulla, certo: le truppe sovietiche non se ne andarono. Eppure, se cambiò qualcosa, fu la coscienza di coloro che capirono». Così anche durante la normalizzazione ci fu chi non si accontentò del relativo benessere socialista pagato con la resa del proprio io, e continuò a lottare per la “vita nella verità”. Non si trattò più di singole azioni clamorose, ma di un lavoro minuto e costruttivo di gruppetti eterogenei di “dissidenti”. Nel gennaio ‘89, poco prima che alcuni di loro deponessero fiori in piazza Venceslao in memoria di Palach, i portavoce di Charta77 V. Havel e D. Nemcova ricevettero una lettera anonima in cui uno sconosciuto minacciava di darsi fuoco «per i diritti umani, la libertà di espressione e la libertà religiosa». Ha aggiunto la Nemcova raccontando l’episodio: «Un gesto autodistruttivo di questo tipo non sarebbe stato in sintonia con lo spirito che animava Charta77. Certamente facevamo di tutto perché i diritti venissero garantiti e non intendevamo tacere quando venivano violati. Ma se l’autore di quella lettera si fosse realmente dato fuoco, più che la radicalizzazione dei movimenti di opposizione democratica, sarebbe stata una minaccia ai principi che riconoscevamo».