Novant’anni fa nasceva in Italia il Partito Popolare, fondato da Don Luigi Sturzo, che avrebbe sancito il riavvicinamento dei cattolici alla vita politica del Paese, dopo il famoso non expedit del Beato pontefice Pio IX. Dalle ceneri della Grande Guerra, primo e autentico “collante” del popolo italiano, sorgeva un movimento popolare ispirato alla Dottrina Sociale della Chiesa e in grado di anteporsi ai movimenti socialisti e alle alternative liberali. Ma ebbe vita breve in seguito all’avvento del Fascismo e, dopo la caduta di quest’ultimo, vide traditi, nella pratica politica che seguì, molti dei suoi principi ispiratori. Abbiamo chiesto al professor Roberto Chiarini, docente di storia contemporanea e storia dei partiti presso l’Università degli Studi di Milano, un’analisi della genesi e dell’eredità lasciataci da questa importantissima esperienza politica.
Il 19 gennaio del 1919 nasceva in Italia il Partito Popolare, evento politico che lo storico Federico Chabod non esitò a definire come “il più importante nella storia italiana”. È, a suo avviso, un giudizio tuttora valido?
Per uno storico affermare “la cosa più importante di…” è sempre un azzardo, come d’altra parte per tutte le affermazioni assolute. Quindi non so se sarei d’accordo oggi come oggi nel concordare con questa dichiarazione. Certo è che da un punto di vista politico la nascita del Partito Popolare Italiano ha il merito di aver sanato quell’esilio politico dei cattolici che in realtà significava l’esilio politico dello Stato reale, perché coloro che seguivano i dettami della Chiesa Romana erano allora la stragrande maggioranza.
I popolari andavano quindi a sanare una frattura fra Stato e Chiesa, fra Italia reale e Italia regale, che alla fine ha affossato l’Italia liberale. Più che sanare del tutto direi che ha contribuito ad avviare un risanamento dato che il percorso in questa direzione è ancora oggi in atto.
Sappiamo che Don Sturzo fu personalmente un fautore dell’antistatalismo. A livello politico riuscì a portare avanti questo tipo di visione?
Il Partito Popolare incarnò abbastanza questo atteggiamento, anche perché in termini pratici tutta la sua azione politica contrastava con il carattere un po’ giacobino dello Stato liberale che era invadente non tanto in materia economica quanto soprattutto su temi quali l’educazione e il diritto di famiglia. Dico “abbastanza” perché mai nessuno realizzò o ebbe la possibilità di realizzare appieno i disegni di Sturzo.
Un modello, quello del fondatore che venne poi riproposto nel dopoguerra, quando il piano politico presentava oramai due importanti novità: in primo luogo uno stato nuovamente invadente, dopo la fondazione dell’Iri e poi dell’Eni, e in seconda istanza il fatto che i cattolici che si trovavano al governo, ossia la DC, dimostravano quanto poco dell’impostazione sturziana avessero intenzione di applicare. Sturzo rimase dunque, negli anni ’50, una vox clamans in deserto. I democristiani di allora simulavano un atteggiamento di rispetto nei suoi confronti, ma, di fatto, ne ignoravano pressoché totalmente il pensiero e le intenzioni. Basti pensare che la sede principale che permise a Sturzo di esprimere la propria visione politica fino alla fine furono i giornali d’opposizione. Adesso i vecchi democristiani dicono di averlo ascoltato in passato. In realtà lo trattarono alla stregua di un “nonno impertinente” da relegare in soffitta.
Vi furono per Sturzo in questo senso interlocutori provenienti da altre esperienze politiche?
Ci furono negli anni cinquanta. Si trattava per lo più di qualche liberale imperterrito, si pensi ad esempio all’opera politica di Cesare Merzagora, oppure a quella di Luigi Einaudi che poi divenne Presidente della Repubblica Italiana e dovette assumere un atteggiamento inevitabilmente più equilibrato e super partes. Ma ce ne furono molti altri di politici coi quali l’idea sociale di Don Sturzo venne portata avanti, per non parlare dei i vari giornalisti ed editorialisti di allora. Il Corriere della Sera dei tempi dava molto spazio a questa corrente, anche perché c’erano di mezzo i vari imprenditori che avevano in mano “privilegi elettrici” e non volevano essere depenalizzati.
Che rapporto fu quello fra Don Sturzo e Alcide De Gasperi?
De Gasperi aveva realmente, al contrario di molti suoi compagni di partito, una grandissima considerazione di Sturzo. Ma fu comunque un’ammirazione che si espresse in termini costretti dentro i vincoli del quadro politico. Questo perché la DC, per quanti sforzi facesse lo stesso De Gasperi, divenne molto più confessionale di quel che era stato il partito di Sturzo assumendo le sembianze di un organo politico sempre più d’apparato e non di opinione, composto da politicanti e non da uomini di particolare levatura culturale. Quindi, sebbene a livello speculativo i due fossero accomunati dalle medesime prospettive e dagli stessi intenti, a livello politico il dialogo rimase sempre molto difficile.
Nell’esperienza politica della Seconda Repubblica si possono rintracciare alcune eredità provenienti dal Partito Popolare e dalla lezione di Don Sturzo?
Nella valorizzazione della società civile che è il lievito della democrazia, attraverso circuiti e reti diverse, ma non antitetiche ai partiti. La centralità delle istanze sottostanti alla politica del Partito Popolare, ossia la persona, le varie associazioni, il volontariato, la mobilitazione responsabile del cittadino sul territorio, è il lascito che ci ha consegnato l’opera di Sturzo.
Se si prova a pensare dove la Lega Lombarda di Bossi ha riscosso maggior successo ci si può accorgere che si tratta delle aree di insediamento del cattolicesimo politico. Perché lì era la diffidenza storica nei confronti dello Stato e degli apparati burocratici del centro Italia.
In una parola il Partito Popolare ha consentito che nel nostro Paese sopravvivesse il tema della sussidiarietà, cioè del realizzare in proprio, a livello sociale, tutto quello che si è in grado di fare, lasciando allo Stato il resto. Tuttavia questo è il contrario di quello che finora ha fatto la politica la quale ha sequestrato tutte le funzioni sociali e anche quasi quelle individuali e private del popolo.