Si fa un gran parlare, in questi tempi, del ruolo civile della religione e del cattolicesimo in particolare. Non voglio aggiungere interpretazione a interpretazioni. Noto soltanto che, trattando di questa materia, torna sotto la penna dei commentatori l’immagine, di origine evangelica, per cui il cristianesimo è come il seme nel campo o il lievito nella pasta. Sembra un po’ di riandare ai vecchi dibattiti degli anni settanta, quando proprio l’idea del cristiano che si scioglie come il lievito nella massa o come il seme che marcisce nel campo era molto in auge. E veniva anche usata per attaccare chi poneva l’accento sulla identità del seme e del lievito.



Ultimo in ordine di tempo ad usare questa immagine è stato il teologo Vito Mancuso su La Repubblica del 13 gennaio. Il tema del suo intervento è la mancanza, e conseguente necessità, in Italia di una «religione civile». La posizione è espressa attraverso tre «tesi», l’ultima delle quali suona così: «Una delle condizioni perché in Italia possa sorgere una religione civile è che i cattolici mettano la loro fede al servizio del bene comune». In che modo? Ecco qui la famosa immagine: «Mi sento di dire che il lavoro in questa direzione da parte dei cattolici è uno dei compiti più urgenti. Si tratta di porre davvero la fede a servizio del mondo, di questo pezzo di mondo che si chiama Italia, pensandosi come seme che marcisce nel campo o come lievito che scompare nella pasta». Già qui ci sarebbe qualcosa da osservare. Non credo proprio che la fede sia «al servizio del mondo»: se il mondo sapesse già dove andare (da qualche parte molto bella e felice, suppongo) e avesse le energie sufficienti per andarci, che bisogno avrei della fede? Mi sembra, al contrario, che la fede sia una contestazione della logica del mondo e solo in questa contestazione lo serve veramente, cioè lo «salva». Torna alla mente l’ammonimento che Joseph Zverina (grande teologo cecoslovacco, tra i fondatori di Charta 77) lanciava ai cristiani d’occidente già nel 1970: «Non possiamo imitare il mondo proprio perché dobbiamo giudicarlo, non con orgoglio e superiorità, ma con amore, così come il Padre ha amato il mondo e per questo su di esso ha pronunciato il suo giudizio».



Ma il punto debole nell’uso dell’immagine evangelica si vede nelle successive parole di Mancuso: «Fino a quando il seme vorrà preservare la sua identità di seme senza pensarsi in funzione della pianta, verrà meno al suo compito, fino a quando il lievito vorrà preservare la sua identità di lievito senza pensarsi in funzione della pasta, verrà meno al suo compito». C’è uno slittamento logico evidente. Il meccanismo funziona – fino a un certo punto – quando si parla del lievito, non funziona più quando invece si tratta del seme. Infatti nella frase precedente si diceva che il seme doveva «marcire nel campo», ora che deve essere «in funzione della pianta». Ma la pianta non è il campo. Se il seme diventa terreno e basta, non si trasformerà mai in pianta. Il seme è per la pianta, anzi è la pianta. La sua identità è la medesima, anche se a uno stadio diverso; come io sono sempre io anche se chi vedesse le mie foto di quando avevo due anni non mi riconoscerebbe. Ma, allora, anche l’immagine del lievito nella pasta forse indica altro. Non tanto che il lievito non è più se stesso, ma che lo è talmente tanto che la pasta è, appunto, «lievitata», cioè non è più quella di prima.



È di questa irriducibile fermentazione, è di questo instancabile germogliare che hanno bisogno la pasta azzima e il tronco secco del mondo. Solo questo è il «servizio» che il cristiano fa al mondo.