Una cosa colpiva sempre quando si leggeva un libro o un articolo di Olivier Clément, il grande teologo ortodosso deceduto la sera del 15 gennaio scorso a 87 anni: il suo stupore davanti a quello che lui chiamava il miracolo dell’essere; tutto per lui era miracolo, degno di essere ammirato nella sua bellezza e interrogato sulla sua origine e sul suo significato; non c’era più il nulla, non c’era più la solitudine, solo il miracolo e, soprattutto, il miracolo degli incontri, con le cose e le persone e con il loro creatore.



Lui stesso era arrivato alla fede, da adulto (dopo essere stato quasi schiacciato dal nichilismo moderno) grazie a una serie di incontri, innanzitutto l’incontro con due filosofi religiosi russi esuli a Parigi dopo il colpo di Stato dell’ottobre del 1917: Nikolaj Berdjaev e Vladimir Losskij. Da loro aveva imparato alcune cose essenziali del cristianesimo: innanzitutto che l’uomo e la sua ragione non dovevano difendersi da Cristo ma che anzi solo in Lui potevano trovare la loro pienezza e la loro verità; e poi che questa pienezza e questa verità erano quelle della libertà. L’uomo, la persona umana è irriducibile, libera, non determinata ultimamente da nessuna circostanza, perché è rapporto con l’infinito; e questa irriducibilità, questa libertà non sono appunto uno spazio vuoto ma un rapporto reale, concreto. Cristo non era per Clément un principio, un valore, un modello da seguire, una legge da rispettare, ma una persona, la Persona: «Il cristianesimo è la religione dei volti e delle persone, perché “in Cristo Dio diventa persona e l’uomo stesso diventa persona”».



Essenzialmente vita, e più precisamente vita in Cristo, questo cristianesimo non aveva traccia di spiritualismo: quello che aveva attratto un giovane pagano mediterraneo (così si era definito Clément) era stato proprio un cristianesimo come forza di trasfigurazione di tutto il creato; non c’era più nulla che restasse estraneo alla salvezza e alla luce offerte da Cristo: a salire in Croce era stato un uomo nella sua pienezza e questo uomo si era rivelato Dio, il Signore, più forte della morte.

Quando aveva ritrovato la fede, alla fine degli anni Quaranta, Clément usciva dalla guerra, dall’esperienza di una morte che, dopo l’Olocausto e con la minaccia nucleare, rischiava di diventare planetaria e che comunque di lì a poco avrebbe trionfato nelle menti e nei cuori nella forma del nichilismo; diventando cristiano, dimostrando che si poteva essere cristiani nel XX secolo, Clément fu innanzitutto testimone di questa vittoria di Cristo sulla morte, testimone del Risorto. Il non senso, il male, il dolore, la morte non erano tolti, in un irrealistico lieto fine, ma vinti, resi impotenti; quando alla fine delle sue conferenze veniva sottoposto a un vero fuoco di fila di domande, non ce n’era mai una alla quale si sottraesse, ma non c’era mai una risposta che chiudesse il discorso: la risposta era che la vita ricominciava ogni volta, che in Cristo ogni volta l’uomo rinasceva alla libertà. In fondo era quello che aveva detto di sé e del proprio incontro con Cristo: «mi ha detto che esistevo, che voleva che io esistessi, e dunque che non ero nulla. Mi ha detto che non ero tutto, ma responsabile. Che il male era quello che facevo. Ma che, ancora più profondo, lui c’era. Mi ha detto che avevo bisogno di essere perdonato, guarito e ricreato. E che in lui ero perdonato, guarito e ricreato».



Capace di rispondere al mondo contemporaneo e alla sua domanda di vita e di senso proprio perché definito da questa sensibilità al Risorto, il cristianesimo di Clément aveva un’altra caratteristica essenziale: il suo essere radicato nella Chiesa, perché, senza Chiesa, Cristo rischia ogni volta di «restare un’astrazione» e di essere ridotto alla soggettività delle nostre idee o dei nostri buoni sentimenti. Per Clément, ortodosso in un paese tradizionalmente cattolico, questo aveva voluto dire vivere il proprio incontro con Cristo come una testimonianza di unità: non l’unità come conquista o come negazione della diversità e delle differenze, ma l’unità come mai conclusa conversione personale a Cristo, fonte dell’unità, Persona nella quale tutte le differenze diventano motivo di ricchezza, da quella dell’umano e del divino, uniti senza confusione e senza separazione a quella delle singole persone, unite nella comune figliolanza. Grande testimone dell’ecumenismo, Clément era stato tale soprattutto perché aveva vissuto la tensione all’unità come aspirazione alla propria conversione all’Unico.