A Giorgio Paolucci, caporedattore di Avvenire e profondo conoscitore dell’islam in Italia, ilsussidiario.net ha chiesto quale significato attribuire alle manifestazioni pubbliche organizzate contro la guerra a Gaza e in favore del popolo palestinese, concluse con una preghiera rituale di massa in alcuni luoghi-simbolo delle città italiane.



 

Quale segnale lancia la manifestazione alla quale abbiamo assistito?

 

Le manifestazioni che si sono svolte nei giorni scorsi nelle piazze di alcune città italiane hanno evidenziato – forse per la prima volta con queste dimensioni e in maniera così clamorosa – la crescita e la capacità organizzativa di un fenomeno presente da tempo in altri Paesi europei: l’islamizzazione della politica e la politicizzazione dell’islam. È qualcosa che attiene alla natura stessa e alla storia dell’islam, che nasce e si sviluppa fin dai primi secoli come din wa dunya wa dawla, (letteralmente, “religione, società e Stato”). Cioè come una realtà in cui l’elemento religioso determina precise ricadute in campo politico, economico e sociale.



Vale la pena ricordare che la vicenda stessa di Maometto è stata inizialmente connotata da due fasi. Nella prima, alla Mecca, prevalgono gli elementi più spiccatamente mistico-spirituali ed etici, alcuni dei quali suscitano l’ostilità delle tribù locali e lo costringono ad andarsene dalla sua città natale. Nella seconda fase – dopo l’egira (emigrazione) del 622 dalla Mecca a Medina – egli comincia a organizzare la vita civile della città e a realizzare il suo progetto “globale” che è insieme religioso, sociale e politico. Va notato che questi due momenti sono all’origine del dibattito moderno tra i musulmani su quale debba essere considerato il vero islam: quello della prima fase, cosiddetto “meccano”, o quello successivo, “medinese”. È un fatto che negli ultimi decenni, la seconda visione viene condivisa da un crescente numero di musulmani e connota in maniera evidente i movimenti che si rifanno all’area del cosiddetto fondamentalismo islamico.



È questa la tendenza che prevale attualmente anche in Italia?

L’analisi della presenza musulmana nel nostro Paese è molto complessa e certe letture che si sono succedute in questi giorni a livello mediatico e politico inducono a una semplificazione che può essere “comoda” perché riduce la realtà ad alcuni slogan, ma non aiuta a comprenderla. Si deve anzitutto considerare che in Italia vive più di un milione di musulmani, provenienti da diversi Paesi (non solo arabi) e che si rifanno a svariate interpretazioni e correnti dell’islam (sunniti, sciiti, sufi, ecc.). La maggior parte di costoro svolge le pratiche religiose a livello individuale o familiare o riferendosi a piccole comunità locali, non frequenta la moschea, non fa riferimento a organizzazioni islamiche. C’è poi una realtà “movimentista” il cui principale riferimento è l’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia), vicina alle posizioni dei Fratelli musulmani, che propone e pratica una sorta di islamizzazione dal basso della società, e in cui l’elemento politico è pervasivo. Ma accanto all’Ucoii stanno altre realtà che ne contestano la presunta rappresentatività e che si contendono la leadership di un mondo molto composito, attraversato da fermenti e sollecitazioni molto diverse. Insomma, quello che abbiamo visto nelle piazze è una rappresentazione deformata e deformante dell’islam che vive tra noi.

Resta il fatto che nelle manifestazioni di questi giorni in Italia c’è stata una sovrapposizione pressoché totale tra la fede musulmana e la solidarietà col popolo palestinese.

Uno dei principali obiettivi di questi cortei è proprio l’affermazione sulla scena pubblica di un’identità che è insieme religiosa e politica. Il messaggio che si vuole trasmettere è «noi ci siamo, siamo tanti, abbiamo messo radici, dovete fare i conti con noi». È un nuovo protagonismo che conquista la scena pubblica e lo fa unendo slogan politici a invocazioni religiose. Rivelatore di questa posizione è, ad esempio, l’uso della frase Allah-u akbar. Letteralmente significa “Dio è il più grande”, è un grido di battaglia, uno slogan ricorrente nelle manifestazioni di piazza dei Paesi islamici, e ripetutamente scandito nei cortei di questi giorni in Italia. La stessa frase è risuonata nell’appello alla preghiera in piazza del Duomo a Milano, come per ribadire che non c’è soluzione di continuità tra la riaffermazione dell’identità religiosa attraverso la preghiera e la mobilitazione ideologico-politica a favore della causa palestinese e contro Israele. E in quest’ottica hanno trovato spazio anche gesti “estremi” come il rogo delle bandiere con la stella di David.

A proposito della preghiera in piazza, c’è chi osserva che non si può negare la libertà di culto, altri lanciano l’allarme sul progetto di “islamizzazione del territorio” che verrebbe realizzato attraverso la preghiera.

Bisogna fare chiarezza: qui non è in gioco la possibilità di esprimere il proprio sentimento religioso, anche pubblicamente. Ma si deve tenere conto che questo non può avvenire in barba alle normative vigenti, come ben sanno (ad esempio) i cattolici che devono chiedere regolari permessi per promuovere processioni o altre iniziative sul pubblico suolo. A questo proposito ricordo che la manifestazione milanese di sabato 3 gennaio non avrebbe dovuto concludersi in piazza Duomo, come è invece accaduto in violazione agli accordi presi con le forze dell’ordine. Quindi quella preghiera pubblica non era autorizzata e non doveva essere fatta. I musulmani devono capire che il principio di legalità vale per tutti.

Per quanto riguarda la pretesa di trasformare in “terra consacrata all’islam” quella su cui la comunità compie la preghiera rituale, si può osservare che essa è una convinzione diffusa nella mentalità musulmana, ma non può in alcun modo trovare cittadinanza in Occidente. Su questo terreno le autorità pubbliche devono esercitare la massima sorveglianza e sarebbe opportuno che esprimessero in maniera preventiva e inequivocabile la contrarietà a qualsiasi “pretesa” a riguardo, anche se essa non viene esplicitata da parte di chi compie il gesto.

Infine, è quantomeno sconcertante che una preghiera venga fatta come gesto di contrapposizione “contro” qualcuno, in questo caso il popolo d’Israele. Alla luce di queste valutazioni, mi sembra perlomeno ingenua e comunque inadeguata la posizione di quanti (cattolici e laici) si limitano ad affermare che “non si può mettere in discussione la libertà di preghiera”. Ripeto, non è in discussione questo, la posta in gioco è molto più alta.

C’è chi vede una “provocazione” nella scelta di luoghi altamente simbolici come il Duomo di Milano e la cattedrale di San Petronio a Bologna.

Su questo le interpretazioni possono essere almeno due. La prima mette in evidenza la volontà di ostentare la presenza della comunità musulmana davanti a edifici che più di altri testimoniano le radici cristiane delle due città. È evidente che se un gruppo di cattolici andasse a pregare davanti alla moschea di al-Azhar al Cairo, o in altri luoghi-simbolo dell’islam, i musulmani leggerebbero l’iniziativa come una sfida, una “provocazione a sfondo religioso”. Le scuse presentate alla Curia di Milano, anche se in maniera non del tutto cristallina, sono il segnale che alcuni responsabili della manifestazione si sono resi conto del contraccolpo negativo provocato su gran parte del mondo cattolico, anche quella parte che non aveva manifestato esplicitamente il suo disappunto per quanto era accaduto.

Una seconda interpretazione mette in evidenza la valenza politica – piuttosto che specificamente anticristiana – del gesto. Sono state scelte le piazze più prestigiose per ottenere un forte impatto sulla popolazione e il massimo effetto mediatico. Il sabato successivo a Milano la preghiera si è svolta in un altro luogo-simbolo, ma di carattere laico, come il piazzale antistante la Stazione Centrale. Credo che ci saranno altre sortite di questo genere, che rivelano una volontà precisa di riaffermare l’”islam politico” sulla scena pubblica, come accade da tempo in Francia, in Gran Bretagna, in Germania, dove le comunità sono più radicate e organizzate che da noi.