Come molti protagonisti delle sue storie William Porter, alias O. Henry, fu vittima delle imprevedibili vicende che talvolta la vita riserva ad alcuni individui. Finito in prigione sebbene innocente ebbe modo, fra le mura carcerarie, di scoprire le proprie eccezionali doti di narratore, come spiega il professor Ugo Rubeo, docente di letteratura angloamericana alla Sapienza di Roma. La sua più celebre raccolta di short story Memorie di un cane giallo descrive la vita quotidiana di semplici persone con quella dose di ironia e di benevolenza che non manca mai ai grandi osservatori della realtà
Professor Rubeo, O. Henry è uno scrittore stimato in ambito accademico, ma poco conosciuto. Eppure accostandosi alla sua produzione si rimane inevitabilmente affascinati, oltre che dalla grande sua creatività, anche dalla genesi della sua letteratura. Quanto incise a questo proposito il periodo trascorso in carcere?
L’esperienza di O. Henry nel penitenziario dell’Ohio è cruciale per la sua scrittura. Sebbene infatti fosse già un giornalista discretamente affermato in Texas, il suo confronto con la short story, che è il genere in cui eccelle, nasce sostanzialmente all’interno delle mura del carcere. Quindi, anche se non si tratta di una vera e propria iniziazione, rappresenta certamente un momento fondamentale per la sua vita letteraria poiché in quegli anni egli trova il modo e il tempo di scoprirsi scrittore. È un fenomeno curioso anche perché O. Henry non è l’unico autore ad aver iniziato la propria attività letteraria in carcere. La prigionia è stata la condizione in cui molti altri hanno scoperto le proprie doti di prosatori, soprattutto per quanto riguarda gli scrittori afroamericani del novecento, il secolo successivo a quello del personaggio di cui stiamo parlando, morto nel 1910. Basti pensare a Malcom X, Elridge Cleaver e, in particolare, Chester Himes il quale, a dispetto del nome dal suono così tanto british, è anch’egli uno scrittore afroamericano, impegnato prevalentemente nella detective story, che comincia a scrivere proprio all’interno dello stesso penitenziario dell’Ohio in cui aveva trovato posto O. Henry, coincidenza particolarmente suggestiva.
A questo proposito. Spesso la rappresentazione del carcere, americano e non solo, che noi abbiamo lo dipinge come luogo quasi di perdizione anziché redenzione. A quali fattori attribuisce tale sorta di “redenzione” da parte di questi scrittori?
In effetti è un tema ricorrente. Penso al film L’uomo di Alcatraz, con Burt Lancaster, in cui, pure, si racconta una storia di redenzione che nasce all’interno di un carcere.
Personalmente credo che la prigionia rappresenti un momento, almeno per quanto riguarda la frenetica realtà americana, nel quale si riesce finalmente a riflettere senza i condizionamenti o l’angoscia della quotidianità. Si riflette su di sé senza essere assorbiti da un dover fare.
In secondo luogo occorre considerare che la gran parte di questi scrittori compiono la grande scoperta della lettura, madre della scrittura. Richard Wright, ad esempio, nonostante non sia stato in carcere è uno scrittore che mette in scena il proprio momento di crescita interiore avvenuta attraverso il confronto con la lettura, un’epifania che apre a nuove strade. È quanto accadrà negli anni ‘40 a Malcolm X, che in precedenza non si era mai confrontato con una seria lettura di altri scrittori.
Tornando a O. Henry, il compianto critico Giorgio Manganelli, peraltro traduttore dello scrittore, ne dipinge i racconti come microcosmi iscritti in un universo chiuso di meschineria e umiltà. L’unica “redenzione” dei personaggi sembra essere l’ironia o la furbizia. È davvero così?
O. Henry descrive il suo periodo, la fine dell’Ottocento. È un momento storico particolare durante il quale si presta maggior attenzione agli aspetti della quotidianità, ai risvolti sociali e alle difficoltà che il ceto popolare incontra giorno per giorno. È uno scrittore che dà il meglio di sé forse proprio nei racconti ambientati a New York City, in un periodo in cui questa città era appunto piena di immigranti e di drammi connessi alle loro storie.
Vedo anche una certa ironia corrosiva dello stesso O. Henry nei confronti di alcuni dei suoi personaggi, di qualcuna delle sue creature. Ad esempio il racconto Il dono dei magi è interamente giocato su una serie di piccoli drammi, ma il tutto è accompagnato da un sottofondo ironico. Certamente in questo caso il finale è sentito in maniera particolarmente forte e commossa, ma spesso il riscatto ottenuto dai protagonisti dei suoi racconti sembra provenire dalla morale che essi traggono dalle proprie esperienze. La realtà è la vera maestra del loro agire, una realtà che nei finali si rivela spesso più sorprendente dei loro progetti.
Un aspetto simile, sebbene forse con un po’ più di cinismo, lo si può riscontrare nei racconti di Ambrose Bierce, autore dotato di una grandissima capacità tecnica, il quale tratta sempre i personaggi delle sue storie con notevole freddezza e con una forte dose di distacco ironico.
Per quale motivo William Porter scelse come proprio pseudonimo “O. Henry”?
Ci sono molte interpretazioni sulla scelta di questo pseudonimo. Quello che posso spiegare è perché egli lo adottò.
Porter infatti a un certo punto della propria vita diede inizio a una seria collaborazione con alcune riviste letterarie americane, le più importanti di allora. Dal momento che si trovava in carcere preferì che la sua identità non venisse svelata. Sono svariati gli pseudonimi ai quali ricorse in quel periodo. Con lo pseudonimo “O. Henry” iniziò a collaborare per il New York World Sunday Magazine, rivista domenicale sulla quale per cinque anni pubblicò una mole davvero notevole di racconti: circa 250. Da quell’esperienza rimase legato a tale pseudonimo che oggi tutti utilizziamo.
Sappiamo che negli States è stato istituito addirittura un premio intitolato allo scrittore. Si può trovare oggi in qualche scrittore contemporaneo l’influenza di O. Henry?
Per quanto riguarda il premio direi che attualmente rappresenta un argomento un po’ controverso. Fu istituito tempo fa e rimase per qualche anno, ma poi l’evento venne declassato al ruolo di “premio per la narrativa breve”, con una sorta di sottotitolo che ricorda O. Henry.
Per quanto riguarda le possibili influenze occorre tener conto del fatto che all’epoca di O. Henry la short story era un genere molto più popolare rispetto ad adesso, legato alla grande diffusione di settimanali e mensili ad essa dedicati. Certamente, ci sono ancora scrittori contemporanei che eccellono nel racconto, data anche la grande tradizione americana, che trova in Edgar Allan Poe uno dei principali capostipiti di quel genere.
È difficile parlare di filiazioni più o meno dirette. Direi che, oltre a un maestro riconosciuto come Raymond Carver, si può pensare anche a uno scrittore contemporaneo come Robert Coover, un romanziere che però non disdegna la short story: direi che forse da O. Henry ha ereditato, con risultati davvero divertentissimi, la capacità di ribaltare gli sviluppi di una trama grazie a un colpo a sorpresa finale. Un effetto che i greci antichi chiamavano “aprosdoketon”, e che in fondo rappresenta proprio le sorprese che riserva la realtà.