La gravità dei recenti fatti che hanno visto moltitudini di musulmani a tutti gli effetti occupare le piazze del Duomo a Milano e di San Petronio a Bologna per farvi la preghiera rituale pubblica rispettando la sacra qibla, ossia rivolti in “direzione” della prima città santa dell’islàm, La Mecca, è tutt’altro che trascurabile. Lo diventa soltanto per chi, in nome di un “corretto” relativismo etico-religioso e  ingenuamente limitandosi alle manifestazioni di folclore rituale, ignori l’impianto teologico affatto diverso della religione di Maometto, che non è in primo luogo spirituale. L’islàm non è una religione dell’interiorità (nulla a che vedere con l’intimismo!) alla stregua del cristianesimo – come del resto non è ugualmente monoteistico. Infatti, sia che lo si intenda come fede vera e propria pur nelle varianti confessionali e rituali, sia che lo si prenda nella sua interpretazione socio-culturale e, quindi, laica e indifferente alla definizione positiva del rapporto personale con Dio, il cristianesimo, fondato anche sulla metafisica classica ellenica, è la religione che più parla di anima, di ragione, di cuore, dell’io. E di libertà. Tutte prerogative della natura umana personale, che addirittura diventano argomento giuridico a sostegno dell’idea di persona umana quale fonte stessa del diritto positivo. Una rivoluzione, e non soltanto per il pensiero e il “sistema” degli antichi. Insomma, Gesù Cristo, che ha promesso la risurrezione dei corpi, nell’attesa della parusia ha parlato e parla al cuore, alla intima verità di ogni singolo individuo personalmente per salvarne anzitutto l’anima affinché goda eternamente della visione e della familiarità di Dio.



Non così avviene nell’islàm. In esso, che pure riserva uno spazio alla dimensione interiore e intenzionale del singolo, il primato incontrastato va tuttavia alla dimensione sociale, storica e politica della comunità assembleare dei “credenti sottomessi”, di quanti cioè praticano l’islàm e lo fanno visibilmente e fisicamente su un territorio. Giacché la religione islamica, impiantata sull’esempio concreto della vicenda storica di Maometto – profeta armato e capo di Stato – non opera nessuna distinzione fra gli àmbiti espressivi fondamentali dell’umano, al contrario, congiunge inseparabilmente quelli che nell’arabo dei dottori di legge vengono ricordati come le tre “d”: din, dunya, dawla, ossia “religione, società, Stato”. Insomma, dire “islàm” equivale a dire tutte queste cose in una volta. E tutti gli atti rituali che connotano la religiosità musulmana – dalla preghiera al digiuno al pellegrinaggio alla Mecca… –, prima ancora di presentarsi come gesti di devozione del pio musulmano, sono atti legali esatti dal volere di Allàh. Se così dunque stanno le cose, l’occupazione di suolo pubblico (legittima o abusiva poco importa) per farvi la preghiera – occupazione per altro premeditata e coordinata a distanza, e scevra da ragioni meramente spirituali se è vero che chi la guidava pronunciava a gran voce slogan battaglieri più che sommesse giaculatorie – è una dimostrazione di forza e un avvertimento all’Occidente che tenga nel dovuto conto il peso (numerico) crescente che ormai in Europa sta avendo la ummat al-muslimìn, “il popolo dei sottomessi”.



Personalmente, concordo con chi sostiene che la religione islamica, così come definita dal suo Messaggero – che venne a conoscenza del messaggio cristiano nella sua interpretazione monofisita e non autentica –, sotto il profilo storico e anche teologico non sia né un’eresia cristiana né tutt’un’altra fede, ma invece si ponga come stadio per così dire “evoluto” della fede cristiana, con la quale infatti si paragona (si vedano le figure di Abramo capostipite della linea genealogica “araba” secondo Esaù, di Gesù “profeta” ultimo ma non definitivo, Maria vergine madre di uomo, o ancora la stessa definizione dell’unicità assoluta, non comunionale, di Dio) per distinguersene nettamente. Forma evoluta, perfezionata sì, ma in senso regressivo, cioè nel senso che riporterebbe la “fede” nel Cielo alla presunta purità originaria che Dio aveva previsto e voluto ab origine. Una forma epurata da qualunque ombra di “antropomorfismo”, di miscela tra divino e umano, in sostanza uno sradicamento di Cristo come Dio incarnato, come Uomo-Dio, come la porta che mette in comunicazione la creatura e il Creatore. Il messaggio recato dal Profeta nel Corano è per tanto incitamento a una missione di conquista, di “occupazione” progressiva dello spazio terrestre, specie se abitato e civile, da consegnare non già a un capo qualsiasi, bensì all’unico vero Sovrano, al “Signore dei mondi”: un Dio che non dialoga affatto con l’uomo, che non conosce logos compartecipe, che però in compenso detta all’uomo le proprie inderogabili volontà. Ma se Gesù Cristo è sradicato dalla Terra, è sradicata pure l’ipotesi di accessibilità dell’uomo al divino, l’occasione di salvezza come incontro umano, il senso del vivere. Contestualmente, è pregiudicata, o vanificata, l’idea di processo storico, tanto l’idea laica, idealistica, liberale oppure marxiana, progressiva o conservativa, di una storia di azione, quanto quella cristiana di itinerarium, di pellegrinaggio di esuli in Terra verso la patria del Cielo, secondo Dante, Agostino e la Lettera a Diogneto. In fondo, che cos’altro può fare l’uomo in quanto uomo, per sé stesso e per gli altri, se non eseguire il dettato, scritto una volta per tutte, da Allàh? Dov’è il suo spazio di rischio? Gli rimane uno spazio?



Ora, se in sede storiografica è un fatto noto e acquisito l’avere Maometto attinto non solo alla dottrina cristiana (parziale) intorno a Dio salvatore, ma altresì alla dottrina “sociale” e politica del cristianesimo che distingue, possiamo dire, gli àmbiti di competenza reciproca – il potere sul cosmo e sulla natura a Dio, a Cesare il potere sull’organizzazione del mondo –, ci si chiede: quale slittamento teo-logico si è verificato, che cortocircuito categoriale si è prodotto nel rapporto tra sfera religiosa e sfera socio-politica? Prendendo lo spunto dal celebre motto di Gesù «date a cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio!», conviene rifarci a una formula ermeneutica (la mutuo da Giovanni Cantoni) che trovo di grande aiuto a capire il processo mentale e la stessa teoria e prassi giuridico-istituzionale conseguita. Eccola:

(1)    per la grecità alessandrina e l’impero romano: Caesar est Deus

(2)  per la Chiesa cattolica: Caesar et Deus

(3)  per l’islàm: Deus est Caesar

Il che vuol dire: (1) l’apoteosi del monarca, la sua divinizzazione e, quindi, la con-fusione dei piani civile-politico e sacrale; (2) la distinzione – ironica più che polemica – delle sfere di competenza, che ha, fra le sue conseguenze, l’esclusiva prerogativa e pretesa tutta divina di dare la salvezza (extra ecclesiam nulla salus), compito che è invece drasticamente sottratto al dominio della politica – a meno che questa sia messa al servizio del bene della pace e della retta convivenza e si faccia ancella e ausilio della libertà religiosa; (3) l’assolutizzazione del potere totale di Dio, nella cui onnipotenza è sussunto in via definitiva pure il potere politico che era (sarebbe…) di competenza umana. In tale ordine di pensiero non ha più senso parlare di libertas Ecclesiae (se non come di un contratto a scadenza e, comunque, non paritetico tra le parti: vedi i dhimmi), anzi, non ha più senso parlare né di libertà né di Chiesa, a quella assegnando il contenuto di autodeterminazione cosciente e volontà di adesione a un bene, con questa intendendo una qualsiasi forma di tradizione religiosa consolidata e codificata in un luogo e in un tempo e che abbia pretesa di validità salvifica nel presente e di ponte verso un destino eterno. E per gli uomini che “non ci stanno” non c’è più via di scampo: aggiornando a un possibile scenario futuro prossimo il Gaber ribelle allo schema clerical-democristiano, non è fuori luogo parlare di “libertà obbligatoria”.

Si accennava al sapore ironico del lògion di Gesù su Cesare e Dio. Non si tratta evidentemente di ironia sferzante o amara che si risolve in cinismo o scetticismo, bensì proprio del sorriso di Dio, sorriso avvolgente e amabile, che invita a collocare anche la somma fra le espressioni umane, l’esercizio del potere, nel recinto che gli è proprio, che, per quanto largo sia, è niente o poca cosa se paragonato all’orizzonte infinito, all’illimitata sovranità del Padre celeste. Il potere tuttavia conta eccome nell’economia e nel buon ordine del mondo, sicché da sterile privilegio e arbitrio incondizionato diventa con Cristo cómpito della massima (cor)responsabilità consegnato a un superiore e ultimo ordine provvidenziale.