Le immagini, anche più della parola pronunciata e dei testi, sono lo specchio rivelatore della coscienza che le crea. In loro si proietta almeno un’ombra della cultura e della visione del mondo che le nutre. Sono un segno spesso carico di potente attrattiva, che con più viva immediatezza evoca tutto un mondo nascosto di ideali e di valori, che sta alle loro spalle.
Proviamo per esempio a metterci di fronte a uno dei più splendidi autoritratti dell’arte rinascimentale. Mi riferisco a quello che ci ha lasciato Albrecht Dürer esattamente all’avvio del secolo delle grandi riforme religiose del mondo moderno, firmandolo in latino con la data dell’anno 1500, quando il famoso pittore aveva raggiunto l’età di ventott’anni. Il dipinto lo si trova riprodotto nella recente edizione italiana dell’impegnativo libro di Hans Belting, La vera immagine di Cristo (Boringhieri, 2007, p. 127). Cosa c’entra il ritratto di Dürer con la rappresentazione del volto di Cristo nella tradizione dell’arte occidentale? Basta guardarlo con attenzione: si coglie subito la ricerca esasperata del realismo, si ammira la finezza dei tratti che esaltano l’atletica bellezza del soggetto rappresentato. Ma nello stesso tempo i lunghi capelli sciolti che incorniciano il viso elegante, la barba corta e ben curata, la posa quasi ieratica, il braccio destro compostamente ripiegato sul cuore: tutto denuncia la volontà, che non può non essere stata deliberata, di sottolineare gli elementi di somiglianza con la classica icona del Cristo redentore, consacrata da un’arte religiosa plurisecolare. Sulle mani in primo piano viene l’istinto di andare a cercare con lo sguardo i segni delle ferite della Passione. Se non che il sigillo d’autore e le vesti moderne che coprono il corpo spingono a orientarsi inesorabilmente in senso diverso. Belting rimarca la ragione teologica di fondo di questa scelta di rappresentarsi non semplicemente così come si è, ma in forma Christi. La coscienza cristiana sapeva bene che l’uomo esisteva e aveva valore solo in quanto creato «a immagine e somiglianza di Dio». E dunque il vertice dell’ideale umano a cui si doveva tendere non poteva non adottare come supremo paradigma quel grado massimo di «somiglianza» con Dio inscritto nell’«immagine» da lui assunta, attraverso il Figlio, nella discesa dell’incarnazione. Il corpo fisico di Cristo era la figura risplendente della bellezza e dell’armonia del Dio creatore, che chiamava l’uomo a ricalcare le sue stesse orme e a immedesimarsi con la realtà vittoriosa del nuovo Adamo, per lasciarsi incorporare nel mondo rinnovato dal sacrificio della croce e dal miracolo della Resurrezione. Gesù-uomo era il segno della verità ultima che portava a compimento il destino della persona umana, di ogni uomo: il fondamento e l’emblema di una nuova creazione. Ne fosse totalmente consapevole, o meno – questo non avremo mai modo di saperlo –, resta il fatto che Dürer si è calato nel profilo materiale del Dio fatto carne per dare il massimo di valore e di razionalità alla riproduzione della sua fisionomia di individuo in carne e ossa.
Nel cuore della prodigiosa fioritura artistica e culturale che ha visto poi trionfare il genio di Michelangelo e di Raffaello, nello stesso momento in cui si andavano accumulando le energie sfociate nella tumultuosa ondata ricristianizzatrice dell’Europa dei primi tempi moderni, non suscitava nessuno scandalo che, ai vertici delle élite sociali in cui si muovevano sommi artisti e intellettuali di punta, la coscienza dell’identità personale si costruisse ancorata al robusto pilastro della fede cristiana. Se si guarda alla trattatistica quattro-cinquecentesca sul tema del valore della creatura umana, si viene sommersi da un mare di conferme che si conciliano perfettamente con quanto insegna l’arte di Dürer. Basta riprendere in mano il manifesto per eccellenza di quella che viene etichettata come l’antropologia ottimistica del Rinascimento, cioè il De hominis dignitate di Pico della Mirandola, per ammirare l’entusiasmo giovanile di un pensiero che guardava alla grandezza dell’uomo nell’unica prospettiva allora possibile: quella della sapienza religiosa, che celebrava la libertà e la responsabilità di chi era stato collocato, per un preciso disegno divino, in vetta alla scala degli esseri creati, attribuendogli la funzione di mettere in collegamento la terra con il cielo, stando a un gradino «solo di poco inferiore a quello degli angeli». Ma già i Salmi dell’Antico Testamento avevano giocato sul registro di un’altezza vertiginosa di prestigio combinata con l’umile realismo di una condizione di esistenza segnata dal limite del male e dalla dipendenza nei confronti di Dio. I Padri della Chiesa avevano ugualmente lasciato spazio all’idea dell’uomo vivente, segno visibile della gloria divina. E già da tempo, sulla scia anche di De Lubac, gli studi di padre O’Malley sulla grande cultura di Erasmo e dell’umanesimo cristiano hanno messo in evidenza che tesi in tutto analoghe a quelle di Pico erano riprese nella predicazione di tono più elevato delle cerchie ecclesiastiche del Rinascimento, a cominciare da quella sui testi della Genesi o nel momento forte della Quaresima e della Pasqua offerta al sovrano pontefice nella sontuosa Roma, capitale e centro di governo della cristianità. In qualche caso, quando giungevano a discettare della «dignità dell’uomo», i predicatori pontifici potevano persino parafrasare alla lettera il testo di Pico: senza nemmeno bisogno di dichiarare la fonte del prelievo, perché la cultura del tempo si basava, fisiologicamente, sul continuo riciclaggio di un patrimonio sedimentato di formule e citazioni preconfezionate.
(1 – Continua)