Com’è forse giusto che sia, la prestigiosa università di Cambridge festeggia quest’anno i suoi ottocento anni di vita. Al 1209 risale infatti l’avvio degli studi nell’antico centro commerciale usato dai romani secoli prima.

Un inizio casuale e polemico: infatti i primi magistri («maestri», i nostri «professori») vi si stabilirono in esilio da Oxford, dove una lite tra studenti e abitanti locali era finita nel sangue, con la conseguente sospensione delle attività di docenza. Una colonia di docenti, dunque, presto seguiti da vari gruppi di studenti, mise le tende a circa 140 chilometri a nord est di Oxford, appunto a Cambridge, dando avvio alla seconda istituzione universitaria d’Inghilterra e aprendo una rivalità ancora oggi non sopita, tanto da ricevere l’appellativo di Oxbridge. Una competizione non meramente accademica ma pure sportiva, come simboleggiato dalle mitiche regate di canottaggio e dalle partite di rugby capaci di attirare – ormai nell’Ottocento moderno – folle urlanti di tifosi ed ex-alunni con abbondante contorno di flash e riflettori dei media.



Un anniversario di questa natura insegna varie cose. Per esempio ci ricorda che dire università significa dire giovinezza – degli studenti, certo, ma anche dei docenti, almeno relativamente e per quanto riguarda il Medioevo – e dunque anche tensioni e animosità legate indissolubilmente a un’età della vita che ha energie in sovrappiù da spendere. Piaccia o non piaccia, dire università vuol dire giovani e svaghi correlati – giochi, vino, donne… – con il necessario corollario di problemi sociali. Nella sola Parigi del XIII secolo – che era con Bologna il maggior centro universitario del mondo di allora – le taverne erano oltre 4.000, un numero rilevante delle quali concentrate sulla celebre rive gauche, la «riva sinistra» della Senna dove si sviluppò l’università. E basta aggiungere un semplice cenno allo scandaloso rapporto tra Abelardo ed Eloisa – pur così geniali e magnifici, nei trentasette anni di lui e i sedici di lei, professore lui, sua studentessa lei… – per ricordare come all’incipit delle università europee vi sia stato tutto ciò che può essere rubricato sotto la parola «passione».



E, insieme, possiamo far memoria del fatto che propria quell’età troppo a lungo biasimata – il Medioevo appunto – fu capace di generare una simile impresa culturale. Perché le università dell’Europa medievale – un’Europa ormai talmente cristianizzata da auto-definirsi come Cristianità – furono un vertice assoluto a livello mondiale. Anzi furono qualcosa che né i greci né i romani avevano avuto, e tantomeno altre tradizioni culturali e religiose. Furono la manifestazione di quali vette intellettive (e poi anche pratiche) la mente umana è capace di raggiungere.

Perché si ha una bella cocciutaggine a spostare all’Età Moderna l’inizio della razionalizzazione europea. Come ormai è dimostrato a livello internazionale, fu tra XI e XIII secolo – dunque nel cosiddetto Pieno Medioevo – che l’Europa raggiunse la punta avanzata della civiltà, per non lasciarla sino al presente.



Ma saremo capaci di rimanere a quelle altezze? I nostri padri medievali utilizzarono una lingua comune: il latino medievale, erede di quello classico e insieme così diverso e così potente.

Rifondarono poi un metodo comune a tutta l’Europa: e furono le arti liberali del trivio (grammatica, dialettica, retorica) e del quadrivio (matematica, geometria, musica, astronomia).

Eressero quindi i pilastri delle facoltà: filosofia, diritto, medicina, tutte strappate al campo incolto della superstizione, della forza bruta e della magia per condurle nel dominio della ragione.

Ancora, elevarono le arti meccaniche al rango di discipline libere: e furono gli architetti delle cattedrali romaniche e gotiche.

Infine, coronarono tutta questa architettura mentale e spirituale con l’investigazione del tutto: e fu la teologia, se preferite la metafisica, ovvero la versione medievale della ricerca sull’oltre e dell’oltre, su e di ciò che infinitamente grande e infinitamente piccolo. Su e di ciò che trascende l’uomo, senza nel contempo annichilirlo.

E ora noi festeggiamo dentro uno scheletro vuoto. Perché le nostre università – per l’Italia ciò è senz’altro vero – sono morte e pochissimi hanno il coraggio di dirlo. Perché non c’è riforma che tenga: abbiamo asciugato la linfa da cui tutto questo è sorto. Abbiamo paura della ragione umana, paura di noi stessi. E può l’uomo crescere nella paura? Può la pianta del nostro intelletto vivere senza umore vitale?