Giovanni Codevilla ha recentemente pubblicato un saggio (Lo Zar e il Patriarca, La Casa di Matriona) nel quale analizza i rapporti tra potere civile e potere religioso nella storia russa. Uno studio di particolare attualità oggi, quando la Chiesa ortodossa russa è chiamata a eleggere il suo nuovo pastore. Il Sussidiario gli ha chiesto anzitutto di spiegare quali sono i poteri e le funzioni del Patriarca all’interno della Chiesa
Direi che il Patriarca ha soprattutto un potere di rappresentanza della Chiesa Ortodossa Russa, mentre il vero potere decisionale spetta per lo più ai Concili, sia locali e sia, soprattutto, episcopali e al Santo Sinodo, organi di cui, in ogni caso il Patriarca è il presidente. Lo Statuto del 2000 afferma, infatti, che il Patriarca dirige la Chiesa unitamente al Santo Sinodo, con il quale convoca i Concili. Al Patriarca sono attribuiti numerosi poteri, che tuttavia sono più formali che sostanziali, ad esempio, egli è responsabile dell’attuazione delle delibere conciliari e sinodali, rappresenta la Chiesa nelle relazioni con i supremi organi dello Stato ed emana i decreti di nomina dei vescovi diocesani, i quali, peraltro, sono scelti dal Santo Sinodo, che esercita, invece, un potere effettivo. Tutto ciò viene fatto in omaggio al principio della conciliarità (sobornost’) che caratterizza la gestione della Chiesa russa e che si distingue dalla struttura gerarchica del cattolicesimo.
Diversamente che in occidente, nelle Chiese orientali il rapporto tra i due poteri è caratterizzato dall’idea di “sinfonia”, che però spesso si è trasformata in soggezione del religioso al civile. Qual è, a grandi linee, l’esperienza russa in questo ambito?
L’idea bizantina della sinfonia tra trono e altare ha trovato in Russia una applicazione assai limitata nel tempo, e precisamente nel periodo che va dall’istituzione del Patriarcato di Mosca (1589) al grande scisma dei Vecchi Credenti (1654). Il resto della storia russa è invece caratterizzato da una totale subordinazione della Chiesa allo Stato, che si aggrava soprattutto con l’ascesa al trono di Pietro il Grande, il quale agli inizi del XVIII secolo abolisce il Patriarcato e istituisce al suo posto il Santo Sinodo, retto da un laico nominato dall’imperatore. La Chiesa diventa così una sorta di ministero statale, totalmente privata della sua autonomia. La decisione di Pietro, che muove da una concezione del mondo completamente estranea ai valori religiosi, crea nella società russa una frattura che risulta tuttora insanata. Proprio la concezione petrina costituisce, in ultima istanza, a mio avviso, una delle premesse per lo sviluppo futuro della concezione bolscevica. Non a caso la figura di Pietro trova una piena esaltazione nel periodo comunista.
Nel periodo sovietico la Chiesa è stata sottoposta ad una persecuzione inaudita. A distanza di anni e alla luce dei documenti ora disponibili, qual è il suo giudizio sul comportamento della gerarchia ortodossa russa di fronte al potere sovietico?
Questo è un tema estremamente delicato. Direi prima di tutto che non si può parlare genericamente di un comportamento della Chiesa ortodossa: bisogna, infatti, distinguere tra l’atteggiamento di una parte seppur rilevante della gerarchia, la cui nomina, in realtà, era decisa dai vertici del sistema comunista, e quello di milioni di sacerdoti e di fedeli che hanno scelto di rifiutare ogni calcolo politico e di testimoniare la propria fedeltà della Chiesa, pagando con le torture e il martirio. Questo vale anche per buona parte della gerarchia che di conseguenza è stata eliminata fisicamente (penso in particolare al 1937-38). Credo che la Chiesa sia sopravvissuta per l’esempio dato da questa legione di uomini e donne, laici e consacrati e anche appartenenti alla gerarchia ecclesiastica. Le scelte determinate dal calcolo politico, in realtà, e mi riferisco in particolare al metropolita (poi Patriarca) Sergij, stavano portando non già ad un modus vivendi con lo Stato bensì ad un modus moriendi dell’ortodossia. Per quanto sia paradossale, si deve riconoscere che l’aggressione tedesca, e la conseguente tregua antireligiosa (la cosiddetta Nep religiosa staliniana), ha permesso la sopravvivenza delle Chiese.
Da più parti si sollevano dubbi sulla reale democraticità dell’attuale dirigenza russa. Quali sono i suoi rapporti con la religione? C’è oggi in Russia vera libertà religiosa per tutti? Il rapporto privilegiato del governo con l’ortodossia implica per quest’ultima dei legami di soggezione e, per contro, c’è indebita ingerenza della Chiesa nello stato?
Oggi si sta ricreando in Russia un clima di confessionismo e di giurisdizionalismo che assegna alla Chiesa ortodossa e alle altre cosiddette religioni tradizionali una posizione di assoluto privilegio, in manifesta violazione della legge federale del 1977 e della Costituzione della Federazione Russa. Tra lo Stato e l’ortodossia si istituisce un rapporto di do ut des, in cui lo Stato assegna all’ortodossia ogni sorta di privilegi a compensazione della legittimazione che la Chiesa fornisce alla sovranità dello Stato. Si ricrea in tal modo un clima di libertà religiosa per l’Ortodossia, accanto a Islam, Buddismo e Giudaismo nelle regioni in cui queste fedi sono storicamente consolidate, mentre per le altre religioni si da vita ad un regime di mera tolleranza, a condizione che restringano rigorosamente la loro zona di influenza alle popolazioni che ad esse appartengono storicamente (assoluto divieto di proselitismo, in violazione dell’art. 28 della Costituzione che garantisce a tutti il diritto di “avere e di diffondere convinzioni religiose e altre”). Si consolida in tal modo un sistema di rigido immobilismo confessionale, che ripropone il modello zarista, con la differenza che allora Cattolicesimo e Protestantesimo erano religioni riconosciute e protette, mentre Islam, Buddismo e Giudaismo erano meramente tollerate. Oggi la Russia ripropone un sistema di piena subordinazione della Chiesa allo Stato: si rafforza tra di essi un legame di totale collaborazione, come appare con chiarezza dagli accordi di cooperazione che vengono sottoscritti con cadenza regolare e ad ogni livello. In questo contesto si dà avvio ad una unione tra la Chiesa e lo Stato che limita gravemente la libertà della Chiesa stessa, trasformandola ancora una volta in una istituzione garantita e protetta dallo Stato, come era avvenuto nel periodo dell’Assolutismo. A compensazione di questa posizione privilegiata i massimi dirigenti dello Stato, cresciuti in un sistema totalitario ed estranei ai valori della democrazia, si presentano oggi come i paladini dell’Ortodossia (anche quelli che non sanno farsi il segno della croce!) e di conseguenza godono della gratitudine e del sostegno della gerarchia ecclesiastica.