Il Rinascimento, un po’ come il contesto di crisi in cui viviamo, si descrive come un momento di rottura con il passato e allo stesso tempo come la fondazione di un nuovo inizio. Con la caduta di Costantinopoli (1453), con l’invenzione della stampa a caratteri mobili (1455), con la scoperta dell’America (1492) e la riforma protestante (1517) –come oggi con la caduta del sistema socialstico e capitalistico- vengono a cadere o messi in discussione alcuni dei millenari elementi portanti della civiltà (la presenza dell’impero romano d’oriente, la trascrizione manuale del sapere, la centralità dell’Europa e della chiesa di Roma). Con la crisi non solo di questi sistemi (non si dimentichi quello tolemaico) e della velleità di un perfetto ritorno all’Origine (con l’esaurirsi del neoplatonismo e dell’ambizione di ricostruire un impero universale dopo Carlo V), il Rinascimento segna il momento definitivo di transizione da una filosofia dell’essere, ordinata dal principio della stabilità ed immutabilità del cosmo, a una filosofia della trasformazione.



Con le nuove scoperte e il più ampio accesso alla conoscenza (simile all’odierno processo di digitalizzazione del sapere e della sua diffusione sempre più democratizzata attraverso internet) la cultura “moderna” riformula il proprio fondamento, radicato nel motivo della perdita dell’origine e dell’eterno, come un essere nel tempo, come un essere “di volta in volta” (o “al modo odierno”). Sulla linea di questa nozione di avanzamento (progresso), il presente non trova più il suo valore per ripetizione o imitazione, ma per scarto con un prima, come il luogo di una destabilizzazione continua e di misurata e progressiva costruzione di sé e dello spazio circostante (geografico e intellettuale). Con la sua insistenza sul costume -della moda (con l’affermazione in pittura del ritratto e nel design dell’abito italiano nelle corti europee), o della dissimulata sprezzatura di un sé fatto ad arte (con la divulgazione trattatistica del Principe, del Cortegiano, del Galateo che offrono un codice di costumi e comportamenti)- e con la sua insistenza sulla scoperta e sull’esplorazione (del corpo umano, come nell’anatomia di Vesalio, o del mondo, come nei resoconti dei viaggi di Vespucci)- la “modernità” che il Rinascimento inaugura si caratterizza come un momento di riconversione epistemologica del vecchio sapere del mondo in un nuovo sistema: a giudicare dall’altissimo numero di corsi dedicati al rinascimento offerti nell’accademia americana, tale modernità costituisce un momento saliente per definire i tratti di molta della cultura contemporanea.



Tre sono i momenti di particolare interesse nella lettura americana del rinascimento che informano l’interpretazione e la lettura del mondo odierno. Il primo è l’idea del sé (e della realtà) non più come un dato, ma come una finzione, in costante dissimulazione e trasformazione, secondo il variare delle mode, e in costante autocreazione di sé (o self-fashioning, come dimostra il dilagante fenomeno dei gender studies). Il secondo elemento è la costruzione della conoscenza come una conquista, che allo stesso tempo offra un’esplorazione o mappaggio dello spazio ignoto –sia esso geografico (dalla conquista del West fino a quella della luna) o epistemologico (dal mappaggio del dna a quello delle etnie)- e garantisca, per paura del vuoto e del finito, la possibilità di evasione in un nuovo spazio (come nel genere tipicamente americano della fantascienza) o di apertura a nuova conoscenza (nell’esaltazione della ricerca per la ricerca). Il terzo elemento è quello della riconversione e riformulazione del sapere -dalla vecchia forma del libro alle nuove forme del libro online, delle biblioteche di libri a quelle informatiche: un procedimento in atto che impone non solo un controllo di cosa, del nostro patrimonio librario, verrà digitalizzato (e quindi “salvato”) ma anche una ridefinizione del valore stesso della conoscenza e, in definitiva, del ruolo della cultura. Si gioca qui, a mio avviso, in questo momento di crisi, il giudizio che la cultura dà di se stessa: da alternativa laica al vuoto lasciato dal rifiuto del cristianesimo, qual è stata per i secoli passati, la cultura infatti può definirsi sempre di più –in chiave laica- come il canale globale di una curiositas infinita incarcerata nel labirinto del proprio relativismo e nel ricatto del mercato e della moda o costituirsi –ed è questo l’appello del papa nei suoi discorsi al mondo accademico- come un’agorà (o uni-versitas) spalancata ad un umano comune riverberante di domande e a una realtà in sovrabbondante autodonazione.

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