Vada per “gabbano”, “idiosincrasia” e “facondia”, ma quando si arriva a ignorare il significato di “zotico” o addirittura di “beffardo” si supera davvero ogni limite. Così ci ha pensato il dizionario Zingarelli che per l’edizione del 2010 si presenta con un patrimonio di oltre 2.800 lemmi da salvare. La nostra lingua si sta impoverendo ogni giorno di più e parole orribili di derivazione informatica come “interfacciare”, “chattare” e “googlare” o di altra origine come “merolone”, “tangentopoli”, “calciopoli” e via dicendo, sostituiscono i figli lessicali del nostro latino. Ma in che misura stiamo precipitando verso il vuoto cultural lessicale? Lo abbiamo chiesto al professor Luca Serianni, docente ordinario di Storia della Lingua Italiana alla Sapienza di Roma, membro dell’Accademia della Crusca e dell’Accademia dei Lincei nonché consigliere centrale della Società Dante Alighieri   



 

Professor Serianni, è una minaccia seria quella che riguarda l’impoverimento lessicale della nostra lingua?

Intanto premetto che quella dello Zingarelli è una provocazione che per quanto molto giusta e raffinata rimane una provocazione. Nell’operazione portata avanti dalla redazione di questo importante vocabolario si prendono delle parole, soprattutto dal lessico astratto, la cui conoscenza tende a ridursi. Il fenomeno non è nuovo, lo avvertiamo particolarmente perché c’è un certo iato fra la lingua parlata, che normalmente è molto più “comoda” e vede diminuita una competenza e confidenza con alcune parole, e la lingua scritta. Proprio quest’ultima possiede un maggior utilizzo dei lemmi sui quali lo Zingarelli si sofferma nella sua ricerca. Parole con una patina non proprio antica, ma insomma che avvertiamo come non tipiche dell’uso parlato.



Quindi lo scritto mantiene, per così dire, al sicuro il nostro lessico?

Di norma sì. Lo scollamento tra un parlato condiviso e naturalmente povero, fenomeno normale in tutto il mondo, e lo scritto è pressoché fisiologico di una lingua. Quello che però preoccupa sono le condizioni di salute del nostro italiano scritto attuale. È infatti sulle pagine scritte che comincia ad avvertirsi la perdita del nostro lessico.

Molti additano la scuola come responsabile prima di questo fenomeno. È d’accordo?

In parte sì, nel senso che mi pare che si sia perso il contatto con la tradizione letteraria italiana dei secoli scorsi che bene o male, nella fascia perlomeno degli studenti che frequentavano il liceo trent’anni fa, era ancora abbastanza trasparente. Oggi diciamo ancora che Dante scrive con la stessa lingua da noi utilizzata magari poco accessibile per via di una patina lessicale arcaica. In realtà ho l’impressione che sia una pia illusione. Dante come lingua o Boccaccio sono distanti quasi come un testo di latino. C’è stata un’accelerazione del naturale iato tra antico e moderno, questo ha comportato la conseguenza della perdita di un certo lessico più controllato. Che però è il lessico che può capitare di leggere in un editoriale di un grande quotidiano, magari dal grande giornalista o collaboratore che usa anche alcuni termini rari con funzione giocosa. Perderlo significa non essere pienamente in grado di capire l’articolo di fondo di un giornale. Un rischio grave per uno studente di liceo, gravissimo per un uomo adulto.



Quando avviene per il lessico italiano è assimilabile alla graduale scomparsa del congiuntivo o si tratta di processi differenti?

 

Chiariamo subito un concetto sul congiuntivo: non è poi vero che sia messo così male. C’è un allarme forse eccessivo. Metterei dunque i due fenomeni su un piano diverso. Il congiuntivo nel linguaggio parlato è stato sempre insidiato dall’indicativo, non è un fatto di oggi. Ma ha sempre resistito e oggi nello scritto si usa abbastanza saldamente. Lo scritto è il suo naturale ambiente di coltura.

Importante è invece osservare che il lessico, una volta scomparso, si perde anche come competenza “passiva”. In altre parole: non solo non si usa, ma non si è in grado di riconoscere e capire che cosa significhi un dato lemma. Ho dei dati ancora sommari ma estremamente preoccupanti per quanto riguarda i test di ammissione degli studenti alle varie facoltà universitarie. Stando a questi sembra che il riconoscimento di molte parole del lessico meno comune abbia creato problemi e difficoltà.

Il congiuntivo “morente” è invece un fenomeno di lunga deriva per il quale forse c’è anche più sensibilità comune. «Il congiuntivo sta morendo» è una di quelle frasi che si sente dire, quasi come «non ci sono più le mezze stagioni». La scomparsa del lessico ha senza dubbio un’urgenza maggiore

 

A questo proposito c’è chi ha attribuito alla semplificazione delle lingue anche un interesse funzionale alle ideologie massificanti e totalitarie. Semplificare il linguaggio impoverisce le coscienze. Come vede questa diagnosi? 

 

È stata piuttosto vera in passato. Tutti noi possiamo sperimentare come il potere abbia semplificato il linguaggio con numerosi esempi. Dal punto di vista ideologico la concezione per la quale si debba decostruire la lingua per “andare verso il popolo” rappresenta un atteggiamento che si sta superando. Credo che il modo di favorire l’educazione linguistica complessiva sia quello di non dissimulare la complessità lessicale. Ricominciamo a insegnare l’italiano per quello che è, senza prese di posizione di qualsivoglia tipo. Riporto un altro dato che sembra piuttosto significativo. Nel 2006 alcuni studenti arrivarono agli esami di stato con debiti formativi: il 40% degli studenti del classico e il 50% dello scientifico presentava debiti in matematica. Il 39% aveva debiti in latino per entrambi i casi. L’italiano si presentava con il 10/9%. Se fosse così ci sarebbe da essere contentissimi, ma stando a un mio recente studio ho notato che, per la correzione dei temi in particolare, c’è una forte tendenza al buonismo nell’insegnamento della nostra lingua. Occorre dunque tornare a un insegnamento più onesto nei confronti dell’italiano.