Raul Montanari ha pubblicato da pochi giorni la sua ultima fatica, il romanzo “Strane cose, domani”. Una trama ambientata a Milano, e ispirata a un fatto vero, a metà fra il noir e il giallo psicologico dove a partire da un “segno” lasciato da qualcuno il protagonista intraprende un’incessante ricerca. Ma al di là del romanzo in questione abbiamo chiesto all’autore quali siano per lui gli spunti che la realtà offre alla sua scrittura e da dove nascano le sue riflessioni sul male e sugli uomini
Montanari, com’è che uno scrittore come lei si approccia alla stesura di un romanzo?
Normalmente io ho degli “appuntamenti” annui fissi. Nel mese di febbraio cerco il soggetto di un romanzo, a marzo eseguo tutto il lavoro preparatorio e verso aprile lo scrivo. Lavoro in questa maniera. Insomma penso di doverlo scrivere quando è passato abbastanza tempo dall’uscita del precedente. Di solito, come moltissimi scrittori, mi capita di scrivere il libro mentre sta uscendo il precedente. Una coincidenza che tra l’altro è anche un po’ fastidiosa.
Un vero e proprio metodo insomma. Ma per quanto riguarda l’ispirazione qual è la sua “scintilla”?
Gli spunti che trovo sono piuttosto vari. L’ultimo libro che ho pubblicato nasce da un fatto vero. Un giorno piovoso trovai su una panchina del parco Sempione il diario una ragazza che volli poi incontrare. Quando la conobbi mi disse che deliberatamente aveva abbandonato il proprio diario per lasciarsi alle spalle un anno di sofferenze e che in realtà non si trattava di uno, ma di sette diari abbandonati. Allora mi son detto fra me e me: «pensa se io mi innamoro di questa ragazza e se nel frattempo un’altra persona che ha trovato un altro dei diari si innamora di lei». Così comincia nel romanzo questa “partita” fra due giocatori invisibili che ignorano l’esistenza l’uno dell’altro.
Come si arriva poi a costruire un’intera storia?
Dipende da come si scrive. Personalmente mi definisco uno “scrittore da trama”. Ragiono sulle geometrie della trama al punto che all’inizio di un romanzo adopero le lettere dell’alfabeto anziché i nomi dei personaggi. Altri scrittori partono invece proprio dai personaggi per poi strutturare una trama. Nel caso di “Strane cose, domani” le mie abitudini sono state modificate. Ma di solito mi concentro sulla struttura narrativa. Una cosa buffa che il lettore attento può osservare nei miei libri è che i personaggi mantengono l’iniziale affibbiata loro durante la stesura. Iniziali che quindi solitamente seguono l’alfabeto: Andrea, Beatrice, Claudio, Daniele e via dicendo.
Nel suo romanzo “Strane cose, domani” il problema del male è messo in particolare rilievo. Che esperienza ha lei del male?
Nella mia vita il male è entrato subito, un male fisico. Sono nato e cresciuto in una cultura che era molto violenta con i bambini. Maltrattamenti e punizioni fisiche crudeli erano la norma e sono stati la norma anche per me. Lo racconto in un capitolo del libro quando parlo dell’esperienza allucinante vissuta dal protagonista in una colonia invernale del comune di Milano, a Ospedaletti. Questa cicatrice dell’infanzia è stata così forte per me che fin da piccolo ho cominciato a farmi domande sul male. Esisteva il male fisico, ma anche una parte oscura che dimorava in tutti, perfino nei miei genitori. Il mondo degli adulti poi era visto e vissuto dai bambini in modo molto “compatto”. Gli adulti si davano ragione a vicenda, chiunque aveva il diritto di dare un ceffone a un bambino per strada. E se il bambino fosse andato a riferire la cosa alla madre questa probabilmente gli avrebbe domandato: «tu che cosa gli hai fatto?».
Adesso c’è l’eccesso contrario, gli adulti sono prigionieri dei bambini. Dopo il ’68 è subentrato un modello educativo prima permissivo e poi addirittura remissivo. Il pianto del bambino diventa un trauma per i genitori che cercano l’amicizia di coppie con figli non tanto per compagnia, ma per condividere la pena di crescere un figlio. Detesto l’idea che gli adulti non si possano difendere dai bambini, ovviamente non devono farlo a bastonate.
Quindi un’esperienza di dolore fisico che poi è sfociata anche in una riflessione sul male in sé
Sì, l’altro grande segno del male è la morte stessa. Quando a 14 anni persi la fede mi trovai di fronte alla morte, da solo ad affrontare la notte, il buio, l’idea dell’annullamento, della non sopravvivenza. La morte da allora mi appare come la madre di tutti i mali, la grande madre che ci rende patetici, fragili, ma anche interessanti. È la nostra limitatezza a dare senso e risonanza alle nostre azioni. Gli animali conoscono solo la morte degli altri animali non la propria, sono molto più integrati nel ciclo naturale. Noi uomini abbiamo qualcosa che “eccede” da questo ciclo.
Inoltre nell’uomo, inteso in senso maschile, prevale anche una voglia di non crescere, una nostalgia dei cortili dell’infanzia e dell’amicizia, della nostra adolescenza. In moltissime situazioni narrative ed esistenziali la donna è vista come elemento che porta turbamento all’interno di una rete di amicizie. Questa percezione della donna rovinosa è la stessa che nel noir la trasforma nella “dark lady” che fa saltare gli equilibri di un gruppo. Ma questo aspetto è anche fonte di ammirazione nei confronti delle donne che sono di norma più pronte degli uomini a vivere le stagioni dell’esistenza.
Perché ha scelto proprio la figura di uno psicologo come protagonista della vicenda?
Lo psicologo in questo caso si trova in una condizione narrativa privilegiata. Dal momento che il romanzo è raccontato in prima persona il protagonista si trova nella situazione ideale per raccontare cose interessanti al lettore senza che quest’ultimo provi mai la sensazione, secondo me è sbagliata, che il personaggio capisca “troppo” di quello che gli succede. Se io, come mi è capitato, scrivo un romanzo che ha per protagonista un individuo ignorante non gli metto mai in testa dei pensieri che non potrebbe formulare. La mia scrittura si adegua.
In questo caso, trattandosi di una persona abituata alle reazioni e ai comportamenti umani, riesce molto naturale descrivere i pensieri profondi, ironici, autocritici e anche simpatici che egli formula sulla ragazza autrice del diario. Da questo punto di vista lo psicologo diventa una leva narrativa molto efficace.
Lei ambienta il romanzo a Milano. È efficace il palcoscenico che offre questa città da un punto di vista narrativo?
In questo caso la scelta era obbligata poiché il diario l’ho trovato proprio a Milano. La maggior parte dei miei romanzi comunque è ambientata in questa città. Altri lo sono invece nel mio “altro luogo” che è il lago d’Iseo.
In realtà detesto Milano, la trovo la città più brutta di Italia in assoluto, la reputo orripilante. Ha diverse disgrazie: le manca un fiume, è a metà fra la solarità mediterranea e la compostezza civile delle città continentali, elementi questi che non possiede fino in fondo. Milano vorrebbe essere una città continentale perché la sua vocazione è quella, ma purtroppo non ce la fa. Per non parlare delle odiose stratificazioni sociali dei milanesi: quelli dei navigli, quelli di porta romana, eccetera.
Detto questo Milano come luogo narrativo è eccezionale. Proprio perché dietro ogni angolo può uscire di tutto, come in un western. Questa specie di melting pot sociale è di fatto un materiale altamente incendiario da un punto di vista letterario, la definirei addirittura impareggiabile. Purtroppo non riesco a dire altrettanto per ciò che riguarda il viverci.