Silvio Colagrande è uno dei “mutilatini” dell’opera di don Carlo Gnocchi. Durante l’infanzia perse la vista a causa di uno spruzzo di calce viva e venne mandato dai suoi presso il centro di accoglienza aperto a Inverigo, in provincia di Como. Là conobbe il sacerdote grazie al quale riebbe il dono della vista. Il 28 febbraio del 1956 infatti venne sottoposto a un trapianto, il primo in Italia, delle cornee. Il donatore era infatti don Gnocchi, deceduto il giorno prima. In occasione della sua beatificazione che avverrà la prossima domenica lo abbiamo intervistato perché ci raccontasse la sua esperienza in compagnia di questo grande educatore della Chiesa
Dottor Colagrande, come ha accolto la notizia della beatificazione di don Gnocchi?
Ad essere sincero sono sempre stato un po’ impaziente di ricevere questa notizia. La Chiesa ha portato alla beatificazione una persona che per noi era già da lungo tempo considerato, non beato ma santo. E non parlo soltanto di chi oggi lavora all’interno della Fondazione Don Gnocchi, ma delle moltissime persone che lo hanno conosciuto. C’è ancora molta gente viva fra i suoi mutilatini. Molta gente che lo ha conosciuto e amato. E tutti coloro che hanno avuto a che fare con don Carlo di lui hanno la stessa identica impressione, ossia che fosse un uomo straordinariamente capace di incidere nel sociale, ma sempre partendo dalla sua fede in Cristo. La sua beatificazione si può certamente interpretare, da un punto di vista laico, come il riconoscimento delle grandi opere sociali che egli ha generato, eppure la sua missione non si capirebbe se si prescindesse dalla sua religiosità. Per questo motivo noi lo abbiamo sempre considerato un santo.
Insomma non c’era in lui distinzione fra l’aspetto sociale e quello religioso?
Assolutamente no. Io cerco sempre di spiegare questo concetto riprendendo quanto egli scrisse nella sua opera “Pedagogia del dolore innocente”, laddove si interroga cercando di motivare tutte le sfaccettature del dolore dei bambini, che è il più innocente di tutti i dolori. Secondo Don Gnocchi questo dolore è permesso perché si manifestino le opere di Dio e quelle degli uomini. Le opere degli uomini le identificava soprattutto nel travaglio della scienza alla ricerca di soluzioni mediche, le opere di Dio attraverso l’esperienza della gratuità con la quale il dolore dell’altro veniva accolto. Su entrambi questi fattori egli riportava sempre il punto alla misteriosa opera della Carità soprannaturale. Non era visionario, egli parlava sempre di cose umane, ma legate indissolubilmente alla volontà divina.
Come è stato il suo incontro con don Carlo Gnocchi?
L’ho conosciuto un anno e mezzo prima che morisse, avevo 10 anni quando giunsi qui a Inverigo e stavo allora cominciando a rivedere un po’ dall’occhio destro. Non riuscivo, e non sarei mai riuscito a riprendere a leggere e scrivere. Ma non avevo difficoltà a riconoscere le persone. Quando venni a Inverigo la prima volta sentii il suo sguardo su di me, ma don Carlo non mi rivolse mai la parola?
Per quale motivo?
CONTINUA A LEGGERE L’INTERVISTA, CLICCA SUL NUMERO “2” QUI SOTTO
Non l’ho mai saputo. Ricordo però che mi rivolse un bellissimo sorriso. Anche questo fa parte delle sue “misteriosità”. Ma dopo 10 giorni da quell’incontro mi fecero visitare gli occhi dal professor Galeazzi. La conclusione del medico fu che l’unica soluzione per me sarebbe stata un trapianto di cornea in Svizzera. In Italia a quei tempi i trapianti erano proibiti. Poi, in primavera, venni trasferito a Roma in una scuola dove insegnavano a leggere il braille. Nel mese di agosto il direttore mi comunicò che in Svizzera si erano resi disponibili per sottopormi a un intervento. Era il settembre del 1955 quando rividi don Carlo. Ma quella volta non era più come la prima. Il suo volto era sofferto, i lineamenti tirati, si vedeva che era ammalato. In seguito mi dissero che il trapianto in Svizzera era saltato. Poi tutto è precipitato. Il 27 febbraio del ’56 venne a prendermi il professor Galeazzi. Il 28 intuii che stavo per essere sottoposto a un’operazione agli occhi, ma solo il giorno dopo compresi che il donatore era stato don Carlo. Infatti la radio dette l’annuncio della sua morte. Ero stato operato a Milano, «ci penso io a lui» aveva detto pochi giorni prima di morire, era riuscito a farmi operare in semiclandestinità presso l’istituto oftalmico dal professor Galeazzi e mi aveva donato i suoi occhi.
Perché scelse proprio lei nonostante non le avesse mai rivolto la parola?
Il motivo preciso non lo so. Io me lo spiego con un gesto d’amore che trascende il livello confidenziale di un rapporto. Ero lì e avevo bisogno di un trapianto, lui ha fatto sì che questo avvenisse, punto. Le altre ragioni che abitavano nella sua mente le ignoro, ma penso che questo gesto sia stata la conseguenza ultima di un’anima abituata a donarsi completamente. Non credo che questa interpretazione sia lontana dal vero.
Spesso si utilizza la parola “miracolo” per descrivere fenomeni soprannaturali e inspiegabili. In questo caso di miracolo non si tratta, ma di un trapianto medico. Eppure qualcosa fa sì che questa sua esperienza possa essere chiamata miracolosa, perché?
In genere dovrebbero essere altri, e non uno come me, ad attestare l’autenticità o meno di un miracolo. Io mi limito a dire che gli effetti del trapianto che ho subito durano da 53 anni e mezzo, perfettamente. Quando sono tornato a vedere, non ho acquistato una vista d’aquila, non mi è successo quello che accade ad alcuni pazienti che recuperano 9 o 10 decimi. Recuperai soltanto 2,60 decimi, fin da subito. Un mezzo insuccesso apparentemente. Eppure da allora non sono peggiorato nemmeno di un centesimo alla vista. Sono riuscito a studiare, a laurearmi e a lavorare per tutto il resto della mia vita. Lo stato del trapianto è esattamente quello del primo giorno. Per i medici questo fatto, per quanto eccezionale, è comunque accettabile da un punto di vista scientifico. Ma personalmente lo giudico come un perenne segno della presenza di don Carlo nella mia vita. Lo considero come il mantenimento di un legame e di una promessa che egli ha fatto alla mia vita.
Oltre al trapianto di cornea, per che cosa lei è più grato alla figura di Carlo Gnocchi?
In primo luogo egli ci ha raccolti dalla strada. Era un’epoca nella quale senza il suo abbraccio saremmo cresciuti come dei poveri derelitti abbandonati senza alcuna possibilità nella vita. L’opera dei mutilatini è consistita nel rilanciare numerose vite spezzate. E questo non è poco, considerando anche i sacrifici immani ai quali don Carlo si è sottoposto lungo l’arco di tutta la sua vita per noi. Ma soprattutto sono grato a don Gnocchi per averci offerto la possibilità di continuare la sua opera, in primo luogo insegnandocene il valore profondo e poi offrendoci la possibilità di portare a compimento la nostra vita seguendo il percorso da lui iniziato.