Il mio occhio s’è fatto pittore ed ha tracciato / L’immagine tua bella sul quadro del mio cuore; / Il mio corpo è cornice in cui è racchiusa, /Prospettica, eccellente arte pittorica, / Ché attraverso il pittore devi vederne l’arte / Per trovar dove sia la tua autentica immagine dipinta, / Custodita nella bottega del mio seno, / Che ha gli occhi tuoi per vetri alle finestre. / Vedi ora come gli occhi si aiutino a vicenda: / I miei hanno tracciato la tua figura e i tuoi / Son finestre al mio seno, per cui il sole / Gode affacciarsi ad ammirare te. // Però all’arte dell’occhio manca la miglior grazia: /Ritrae quello che vede, ma non conosce il cuore.
I Sonetti di Shakespeare compiono, sembra, quattrocento anni, ed è giusto festeggiarli con convegni e festival, come si fa persino da noi, dove Shakespeare ha potuto essere una moda senza essere realmente conosciuto.
C’è però anche chi, come il sottoscritto, ha legato a questi componimenti spesso mirabili non solo il proprio interesse specifico ma anche le proprie vicende biografiche. Se Shakespeare è stato, come diceva Testori (che amava le classifiche) il più grande poeta di ogni tempo, la sua forza sta anche nella straordinaria capacità che il suo genio ha avuto di catturare la normalità della nostra vita e restituircela così com’è dentro il suo sguardo.
In questo Shakespeare non è solo parente di Dante e di Dostoevskij, ma anche di Lucio Battisti, dei Beatles e degli Abba. Gente che ha acquistato fama mondiale perché ha saputo parlarci della vita così com’è, senza interpretarla troppo.
Il sonetto shakespeariano che preferisco è il numero 24, che riporto in apertura di articolo. Perché è quello che preferisco? Innanzitutto perché lo recitai alla ragazza che amavo un giorno di maggio, venticinque anni fa, in un giardinetto di Milano. Fu la mia dichiarazione. Gli ultimi due versi, nei quali il poeta giustamente sottolinea il limite invalicabile dell’occhio umano, tremarono un po’ nella mia voce, quel giorno: ad essi avevo affidato la mia speranza. Per fortuna lei mi disse di sì.
L’altra ragione per cui amo particolarmente questo sonetto è la precisione con la quale descrive il cammino della bellezza dentro di noi.
Fra le tante immagini passeggere, la bellezza ha infatti la forza di fissarsi dentro di noi, di permanere come un dipinto su una tela. E noi siamo la cornice del quadro, la parete sulla quale esso è inchiodata e appesa.
Ma tutto questo potrebbe rivelarsi un bizzarro gioco di specchi, e la bellezza nient’altro che l’immagine di un destino beffardo, che ci accende e spegne a suo piacimento, senza nessun senso, se in noi qualcosa non spingesse l’immagine oltre la sua definizione visiva, interrogandola. Da dove vieni? Cosa mi porti di nuovo per la mia vita? Attraverso gli occhi si fissa in noi un’immagine che resterebbe tale se la nostra anima non la trasformasse nel presentimento di qualcosa che sta oltre.
Così, più una cosa bella soddisfa il nostro sguardo, più inquieta – per fortuna – il nostro pensiero e i nostri sentimenti, che si accendono del desiderio vero: non quello del possesso fisico, ma quello di conoscere il cuore, ossia l’origine di quello che gli occhi vedono.
Nessuno meglio di Shakespeare ha saputo illuminare il moto quotidiano della nostra vita. Tutti i sassolini su cui camminano i nostri piedi si sono trasformati, nella sua opera, in diamanti. Eppure non fu un visionario.
E non è detto – visti i risultati – che a vedere giusto sia stato lui.