Negli ultimi due mesi si sono tenuti a Milano e a Bologna due importanti convegni sulla figura di Giovanni Vailati, matematico e filosofo cremasco del quale ricorre quest’anno l’anniversario della morte. I due convegni partivano da presupposti diversi (“ripensare il pragmatismo” era quello del convegno milanese; il rapporto con la filosofia contemporanea, soprattutto di stampo analitico, il tema del workshop bolognese), ma erano accomunati dall’idea di vedere se le idee del più “profetico” dei pensatori italiani di inizio novecento avessero ancora una validità e una vitalità.
Tra gli intervenuti alcuni dei grandi nomi delle discipline in questione: a Milano C. Hookway (l’autore del Peirce della Routledge), J. Margolis (l’avversario pragmatista del post-modernismo), F. Zalamea (il filosofo della matematica dei fasci e delle categorie); a Bologna P. Suppes (uno dei grandi teorici della probabilità che ha appena tradotto in inglese dei Selected Papers di Vailati: Logic and Pragmatism, SCLA 2009). Oltre alla solita schiera di studiosi italiani del pragmatismo (oltre al sottoscritto, Calcaterra, Fabbrichesi, Ferrari, Quaranta, De Zan, Tuzet, Cantù) e, a Milano, un gruppetto di giovani studiosi che hanno dato vita a una sessione vivace e promettente.
A parte i dubbi sulla formula convegnistica, ancora necessaria per scambiare idee fra studiosi ma del tutto ignorata dagli studenti e dai non-specialisti, veniamo al contenuto. Vailati è stato un grande pensatore morto troppo giovane (46 anni) per esprimere un sistema compiuto, tuttavia è stato collaboratore di Peano nell’estensione del Formulario, ha individuato prima degli altri la forza della nuova logica simbolica, e – soprattutto – in un’epoca dominata da positivismo e idealismo ha mostrato che l’esperienza e la ragione sono ambiti ben più vasti dell’empirismo del primo e dell’intellettualismo del secondo.
Ciò che rimane oggi è che proprio per questa concezione ampia di esperienza e di ragione il pragmatismo, la cui regola fondamentale è che il significato di un concetto coincide con la somma degli effetti concepibili che esso produce, è ancora vivo perché propone una “terza via” tra l’arbitrarietà di un’ermeneutica che tende a privarsi di metodi condivisibili e la ristrettezza di una metodologia analitica spesso priva di orizzonti di significato.
Già cento anni fa Vailati, nel suo anti-kantismo viscerale, mostrava che non si possono dividere i regni della pratica e quello della teoria, che l’estetica e la storia sono decisivi all’interno delle scienze, che la distinzione tra ragionamenti sintetici e analitici andrebbe indebolita e letta genealogicamente perché i primi danno vita ai secondi e non viceversa. Insomma Vailati aveva capito che l’esperienza è “spessa” – per dirla con James – e la nostra conoscenza si muove all’interno di questa complessità collegando argomenti che nascono da parti diverse di essa. Più la ragione è agile nel muoversi fra le discipline e i diversi argomenti, senza rifiutare nulla (Vailati come tutti i pragmatisti non rigettava a priori né scienza né religione, né metafisica né logica, né psicologia né sociologia) più è facile che essa sia feconda di idee e ricca di risultati (“dai frutti li riconoscerete” era la traduzione evangelica che Peirce dava del pragmatismo).
Tale unitarietà dell’esperienza e dei metodi di ricerca si ripropone oggi come una necessità quando il paradigma analitico ha esaurito il pensiero sulla matematica di inizio novecento e ne occorre uno nuovo capace di pensare la matematica della seconda metà del secolo scorso con la sua tendenza alla geometrizzazione (Zalamea), i problemi dell’identità dopo la scoperta della narratività e dell’appartenenza come caratteri essenziali dell’io (Calcaterra), la tendenza all’azione propria del pensiero occidentale (Fabbrichesi).
Massimo Ferrari, forse lo storico della filosofia più preparato sulla filosofia europea tra ’800 e ’900, ha fatto vedere che la figura di Vailati è emblematica per dimostrare che prima dell’emigrazione dal circolo di Vienna ad Harvard Square che ha generato l’espansione della filosofia analitica si debba riconoscere un altro viaggio, quello delle idee pragmatiste da Harvard Square all’Europa. Ricomprendere la ricchezza di quel primo viaggio, tradotta e tradita nel secondo, può forse prepararci a una nuova comprensione, sintetica, sia della filosofia europea sia di quella americana.
(Giovanni Maddalena)