È morta il primo autunno novembrino, si potrebbe dire, parafrasando il suo noto endecasillabo: «sono nata il ventuno a primavera» Alda Merini la poetessa con cui ogni italiano di questo tempo dovrebbe fare i conti. Grande donna, grande madre, quattro figli partoriti attraverso i suoi numerosi ricoveri in diversi ospedali psichiatrici; vedova, risposata, sempre innamorata, sempre amante e non altrettanto materna. Feconda e prolissa, le sue poesie le dettava a chi le stava vicino, come fiabe o ninne-nanne per i figli a cui aveva fatto conoscere il sapore dell’abbandono e della lontananza, lo stesso sapore che lei aveva conosciuto così bene e sempre ricordato nei suoi testi, che le dava la spinta per un’infinita ricerca religiosa e umana.
Di lei si annoverano moltissime pubblicazioni, la sua prima raccolta “La presenza di Orfeo” (ed. Shwartz) uscì che aveva appena sedici anni e di lì con Scheiwiller subito altre due prima di sposarsi e manifestare i primi segni della malattia mentale.
Ebbe in sorte anni durissimi, conobbe le condizioni più abbiette in cui versavano i manicomi italiani (una delle sue poesie ricorda lo stupro che subì allora) e paradossalmente la meravigliosa dedizione degli angeli umani che vi si dedicavano tanto che intitolò quella raccolta “La Terra Santa” (Sheiwiller 1984). Se si dovessero elencare tutte le sue opere in poesia e in prosa, aforismi, canzoni, non ci basterebbero due pagine oltre al quelle musicate per lei da Giovanni Nuti e cantate da Milva, le opere teatrali e ultimamente alcuni testi cantati da Roberto Vecchioni.
Quello che vale ricordare e di cui meno si parla, di sicuro non in TV quando fu intervistata da Fazio o invitata da Chiambretti, è la sua produzione cosiddetta “mistica”: la trilogia introdotta da Mons. G. Ravasi (Corpo d’amore, Poema della croce, Francesco, Canto di una creatura) preceduto dal “Magnificat, incontro con Maria” . Altri testi a seguire, sugli angeli e sul Vangelo tutti curati da Arnoldo Mondatori tra il 2000 e il 2008.
Il “suo” Dio è assolutamente carnale, è onnipotente e invadente, ha fattezze umane e altrettante golosità; è geloso degli uomini, li ama alla follia, li fa folli per essere amato. È una specie di gigante Polifemo, quasi pagano nella sua intemperanza, nell’esercizio dell’assoluto.
La Merini invoca un Dio materno e plurimo , afferma «ogni cosa bella diventa peritura nelle mani degli uomini, ma ogni cosa bella baciata da Dio diventa una rosa rossa piena di sangue» (da Corpo d’amore). Questo padre, distante e imperante, è tuttavia amoroso in quanto ha mandato un Uomo, Cristo, ad amarci con le mani e lo spiro. Perché Gesù è soprattutto uomo, il suo divino si scrive con la minuscola, lui ama sua mamma con un amore d’amante, lui dona il suo sangue e la sua carne dolorosamente, il sacrificio è prevalente, il dolore è grande, la comunione cioè il suo corpo-pane si spezza sanguinando; e la sua magnifica madre, la donna amata, è cieca e muta davanti a Dio che per questo la possiede, la usa, la feconda.
Certo, non è facile assaporare questa poesia, almeno per quel cristiano che di Cristo conosce il lato felice, anzi, per colui che nella Comunione è assimilato all’Amore e alla Vita Eterna; per chi guarda alla Madre di Dio come immacolata e Prescelta, come colei il cui assenso ha dato senso al mondo; ecco, questo credo sia il limite della poetica mistica della Merini, lei si è fermata sulla soglia del Mistero e sbirciando dentro, ha visto il sangue e il dolore; cose che conosceva bene, che ha prontamente riscattato. Ha visto un Dio che si fa carne ma è rimasta alla carezza, alla mano, non è andata oltre, al Tabor: come se uno si interessasse a uno spettacolo teatrale, ne pagasse il biglietto ma non restasse fino alla fine, fino al compimento, al lieto evento. Perché c’è una misura umana della gioia e quella se la fa bastare. Ma la gioia può essere immensa, quanto la misericordia, più di quella che può stare nel cuore e nel corpo di un uomo, di una donna.
Questa mistica umana si riflette anche nelle sue numerosissime e famose poesie d’amore; erotica, la definiscono, ma no, romantica forse, perché l’eros è ben altro di carezze e carne, l’eros è il piacere che pervade tutto, soprattutto il pensiero e il destino. L’eros non ha limiti, è totale e felice, non colmo di nostalgia e rimpianto, come spesso il suo: è dono totale, disfarsi nella fiducia dell’Altro e è fecondo. La Merini ama la madre, più della maternità, l’amante più dell’amore.
E così si fa amare, parzialmente, numerosamente, ma mai completamente, non si fa mai colmare. Quello che la colma è la poesia, in un invasamento lirico e delirante, a volte; a volte invece lucido e allora umano, terribilmente: il tentativo di uno che basta a sé con il sentore dell’inevitabile perdita.
Piace la Merini in questa poesia, in questo tempo, da questa cultura che va sui mass-media: è adatta e adattabile, è musicabile, è sempre smentibile, povera pazza amante.
Ma a me piace il suo tormento, la sua madre mancante, che sente la dismisura dell’amore.
La mia poesia è alacre come il fuoco
trascorre tra le mie dita come un rosario.
Non prego perché sono un poeta della sventura
Che tace, a volte, le doglie di un parto dentro le ore,
sono il poeta che grida e che gioca con le sue grida,
sono il poeta che canta e non trova parole,
sono la paglia arida su cui batte il suono,
sono la ninnananna che fa piangere i figli
sono la vanagloria che si lascia cadere,
il manto di metallo di una lunga preghiera
del passato cordoglio che non vede la luce.
Alda Merini da “La volpe e il sipario”