È di due giorni fa la notizia della morte di Claude Lévi-Strauss, uno dei più grandi etnologi e antropologi del ventesimo secolo. Nato nel 1908, la sua opera si è snodata per tre quarti di questo secolo. Lévi-Strauss ha raccolto e rilanciato i lavori di Durkheim in sociologia e di Marcel Mauss in etnologia sviluppando l’idea, che stava prendendo corpo negli anni Trenta, secondo cui ogni popolo e ogni razza esprime una sua cultura ed un suo ordine di valori che hanno dignità di esperienza pari a quelli delle società cosiddette “civilizzate”, in quanto rappresentano diverse espressioni dell’umano nel mondo.
I suoi esordi di scienziato furono in Brasile dove svolse, nelle foreste amazzoniche, i suoi celebri studi sui Bororò e sui Nambikwara. Frutto di questi lavori è il celebre Le strutture elementari della parentela (1949). Ritornato in Francia, sviluppò le implicazioni di metodo delle sue ricerche divenendo uno dei più cospicui ispiratori del cosiddetto “strutturalismo”: movimento di pensiero che, sotto l’influsso delle indagini linguistiche di Saussure e di Jacobson, privilegia la nozione di “struttura” come un ordine che, analogamente a ciò che avviene nel linguaggio, è in grado di ospitare delle differenze e il rapporto e il lavoro reciproci di tali differenze.
Si trattava di conciliare la conoscenza del particolare irripetibile (quella certa parola, quel certo avvenimento, quel certo individuo) con delle leggi e delle condizioni di possibilità, una “grammatica” non solo della lingua , ma degli atti e dei legami, senza di cui nessuna esperienza complessa e articolata sarebbe possibile. L’etnologia intesa come scienza dei legami, delle credenze e dei desideri è stata il banco privilegiato di questo stile di sapere.
Lévi-Strauss da un lato si oppose alla mentalità positivista, per cui è scientifico solo il sapere che è descrizione e registrazione di meri fatti e comportamenti, inquadrati in una visione meccanica delle cause (neurofisiologiche, comportamentali del tipo stimolo-risposta, cause comunque “materialistiche”). Dall’altro lato si è opposto ad uno storicismo che ha privilegiato esageratamente la cultura, storicamente appunto prodotta, come liberazione dalla gabbia di una “nuda” natura.
È la nozione di genesi la grande novità di metodo introdotta da Lèvi-Strauss. Interrogarsi sulla genesi di un’esperienza significa interrogarsi sulla genesi degli atti, dei desideri, dei legami di cui è intessuto l’umano, a differenza dall’animale. Dalla nascita di legami familiari, alle strutture matriarcali e/o patriarcali, al comportamento sessuale, che ha complicazioni e chance ignote alla bestia, alla scelta da parte umana di cuocere i cibi ecc..(da Tristi tropici 1955, a Antropologia strutturale 1958, a Il crudo e il cotto 1964)
Sulla cifra più segreta di questi discorsi, sulla collocazione del soggetto umano rispetto a queste combinatorie di differenze, Lévi-Strauss non si è espresso. Non lo concepiva, da grande scienziato, come suo compito, lasciando forse alla risorsa indecisa del suo stesso discorso quello scarto che la tradizione occidentale chiama libertà, come differenza originaria rispetto ad un necessitante programma.