Si è chiuso sabato scorso, 12 dicembre, la tre giorni promossa dal Progetto culturale della Chiesa Cattolica italiana attorno al tema “Dio oggi”. I cardinali Bagnasco e Ruini hanno fatto gli onori di casa nella sessione introduttiva – intitolata “Dio della fede e Dio dei filosofi” – la quale ha avuto come relazione d’apertura proprio quella del cardinal Ruini, dedicata a “Le vie di Dio nella ragione contemporanea”, e quella di Robert Spaemann, professore emerito di filosofia nell’Università di Monaco di Baviera, dedicata alla “ragionevolezza della fede in Dio”.
Il problema di Dio è, prima ancora che quello della fede che Gli si deve o meno, ossia dei modi del rapporto con Lui, il problema della Sua esistenza e della Sua natura, ha affermato, in apertura del proprio intervento il “padrone di casa”, il cardinal Ruini. Questa è in definitiva l’unica questione che conta se tentiamo di fare un passo più avanti dell’ennesima disputa tra “concezioni” di Dio. Da quella questione dipendono evidentemente queste concezioni. E se «proprio quella se Dio ci sia o non ci sia è la domanda a cui finalmente la vita stessa rimanda», come ha affermato Ruini, allora questa domanda va mantenuta esattamente in questi termini per poter aprire l’intero spettro della questione di Dio. E questo spettro è religioso, storico, filosofico e culturale nella sua accezione più ampia. Da questo punto di vista l’invito fatto a Regensburg da Papa Benedetto XVI ad un “allargamento del nostro concetto di ragione” è stato il punto metodologicamente qualificante i due possenti interventi d’apertura.
Che la questione di Dio, dell’esistenza di Dio innanzitutto, sia questione di ragione è un tratto emerso con consapevole chiarezza. Non certo nel senso razionalistico che si tratti di questione solo di ragione o a perfetta misura di ragione, quanto piuttosto nel senso che si tratta di questione conoscitivamente essenziale: senza Dio l’uomo non può conoscere né il mondo né se stesso: “O Dio c’è, oppure l’autocomprensione dell’uomo in quanto essere di ragione, vale a dire in quanto persona, è una illusione”. Con questo giudizio – ben poco politically correct – Spaemann ha iniziato la lettura del proprio intervento.
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Già più di trent’anni fa questo pensatore poneva l’attenzione proprio sulla rilevanza epistemologica della questione teologica in maniera tanto paradossale quanto efficace. L’affermazione di Dio è equivalente forse a quella secondo cui “ogni cosa è cinque volte più grande di quello che appare”? In tal caso non solo noi non abbiamo alcun modo di verificare questa affermazione ma essa risulta inoltre del tutto insignificante sul piano esistenziale. Il mondo e la vita nei quali tale affermazione è vera restano assolutamente identici a quelli in cui essa è falsa. Esattamente il contrario della pretesa espressa dal sottotitolo del convegno Cei: “con Lui o senza di Lui cambia tutto”.
Nella prima parte del percorso che Spaemann ha svolto davanti alla platea romana egli ha descritto la trama dell’esperienza umana come una trama d’essere e di bene la cui origine e soprattutto la cui intima relazione però ci sfuggono. Il Dio dei “misteri del cristianesimo” allora, in quanto unità indissolubile di potenza ed amore, in quanto cioè amore potente capace di vincere ciò che annulla tanto l’essere quanto il bene, ossia la morte, è “l’imprevisto adempimento di ciò che nel concetto di Dio viene anticipato dalla ragione”.
Quali ragioni si hanno però per affermarne l’esistenza? Spaemann qui ha proceduto in una duplice direzione. Innanzitutto ha ribadito con forza la consistenza dell’interpretazione della realtà naturale come realtà ordinata ad un fine e dell’interiorità umana come luogo del senso. Proprio attorno a questi due temi Spaemann ha infatti dedicato molta della propria produzione scientifica, la quale può in gran parte essere letta come tentativo di difendere queste due esperienze fondamentali da uno scientismo che cerca di convincerci che non siamo chi pensiamo di essere. Su un altro versante egli ha ricordato che la storia del pensiero è anche la storia di argomenti filosofici per dimostrare l’esistenza di Dio, da Aristotele ad oggi. Nietzsche però – ha osservato Spaemann – ha sferrato “un colpo decisivo” alla possibilità di argomentare l’esistenza di Dio perché ha mostrato che Dio è in realtà il presupposto in azione in ogni nostro traffico con la nozione di “verità” e di “senso”: senza Dio niente ha consistenza e verità. Ora, tutte le prove dell’esistenza di Dio muovono da una leggibilità del mondo, cioè da una “verità”, sulla quale edificano la propria argomentazione.
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Dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio è dunque impossibile perché in realtà Dio agisce già come presupposto? Da un certo punto di vista, ammette Spaemann, le cose stanno proprio così. Dopo Nietzsche non possiamo più pretendere di maneggiare la verità indipendentemente da Dio ma “possiamo avere contemporaneamente soltanto entrambe le cose”. Lungi dal significare un’abdicazione dal problema della dimostrazione razionale di Dio – Spaemann ha anzi chiuso il proprio intervento proponendo un proprio argomento che ha definito “Nietzsche-resistente” – questa condizione postmoderna della domanda teologica esige la riaffermazione forte della personalità dell’uomo, la quale, secondo le parole di Spaemann, “sta e coincide con la sua capacità di verità”.
Questa riaffermazione comporta innanzitutto la confutazione dell’immagine che di essa forniscono “biologi, teorici dell’evoluzione e delle neuroscienze”. Per Spaemann la posta in gioco in questa controffensiva in difesa della personalità è – come direbbe Chesterton – la difesa dell’ovvio, ossia la difesa della nostra certezza di essere soggetti di un’identità, di una libertà, di un male, di un bene etc. Dall’altra parte essa appare però anche come l’unica garanzia per poter scorgere in azione quella tensione alla verità senza la quale assieme a Dio anche l’uomo diviene un’illusione.