Con la morte di Alberto Methol Ferré l’America Latina perde uno dei suoi intellettuali più fecondi per produzione e originalità quanto a pensiero. E tanti perdono un amico.
Al capezzale di Methol Ferré, nelle ore dell’estremo commiato, sono passati amici di vecchia data e giovani, persone accomunate da lunghe militanze e altre che di militanze non ne avevano alcuna. Spesso i convenuti non si conoscevano tra di loro. Li univa la stima per il morente, un composto in cui confluiva l’ammirazione per la sua prorompente umanità, il rispetto per il pensatore, la soggezione – nel caso dei più giovani – per la statura intellettuale dell’infermo. Sono passati anche politici uruguayani, valga citare per tutti il probabile futuro presidente José Mujica. Le parole che ci si scambiava nel corridoio della clinica di Montevideo dove Methol Ferré ha trascorso le ultime ore testimoniavano una ricchezza di lascito che è sì intellettuale, di analisi, di pensiero e visione, ma anche umana. Uno dei presenti ha affermato né più né meno che Methol Ferré gli aveva salvato la vita. Poi, con più prodigalità è andato con il ricordo ad un articolo scritto da Methol Ferrè nel 1968 che aveva mosso le acque in Uruguay. Ernesto Che Guevara era stato assassinato da poco in Bolivia (1967). Methol Ferré percepisce con chiarezza il fallimento del progetto insurrezionale. La parabola del leader guerrigliero e la sua fine, rappresentavano, ai suoi occhi, il prevalere di una politica di morte e la morte di ogni politica. Nel presente l’esito nefasto: spianare la strada alla dittatura militare. Sviluppa così una critica impietosa della teoria del “foco” rivoluzionario che affida alle pagine della rivista Vispera. Molti uruguayani, anche amici suoi andarono incontro alla morte. E c’è chi si è fermato sulla soglia del disastro, come in questi giorni si sono fermati in tanti sulla soglia di una stanza di ospedale.
Tutta la vita di Methol Ferré è trascorsa in Uruguay, in una casa sul porto di Montevideo, divisa tra cattedre universitarie e corsi per diplomatici nell’Istituto Artigas del Ministero degli esteri della Repubblica Orientale. Lui diceva scherzosamente, ma rivelando tutta l’ampiezza d’orizzonte della sua attenzione, che l’Uruguay era il suo quartiere, il punto delle intimità, il luogo della quotidianità, e l’America Latina la sua terra. È stato per tutta la vita un uomo di porto, e i porti – si sa – sono crocevia di genti, aprono orizzonti. In Argentina Methol Ferré era di casa. Anche qui conferenze e corsi in quantità. Per anni, di casa, lo è stato in tutta l’America Latina, chiamato a divulgare la sua visione del passato e del presente del continente indifferentemente nelle accademie e nei circoli, in ambiti ecclesiali o politici.
Methol Ferré ha sviluppato un’interpretazione sistematica dell’America Latina moderna, quella, cioè risultante dall’incontro con l’Europa spagnola e l’occidente, e dell’America Latina contemporanea, sorta dalla formazione degli stati indipendenti, fino alla nascita del Mercosud, uno dei temi privilegiati della sua riflessione. Il suo è stato un approccio storico al passato ma non storicista. Non è un caso che il russo Nikolaj Berdiaev sia tra le sue fonti di più riconosciuta influenza, come Ortega y Gasset, lo spagnolo Unamuno, il tedesco Scheler, a cui deve l’incontro con la grande tradizione cristiana e le sue parole chiave, e, ultima influenza sulla sua maturità intellettuale, il filosofo italiano Augusto Del Noce.
Methol Ferré aveva la singolare capacità di riconoscere i dinamismi profondi della storia, quei movimenti che si producono nel sottosuolo e che giungono alla superficie assumendo forme non contingenti. Affrontava le vicende che cadevano di volta in volta sotto la luce dei riflettori dell’attualità sfrondandole dagli orpelli, dagli aspetti decorativi, e afferrava e sviluppava da subito, sin dalle prime battute oratorie, i nuclei generatori. In questo senso non appartiene alla vasta schiera dei ripetitori, sia pure acuti e colti. Prendeva visione e assimilava una mole enorme di materiali per sintetizzarli e riproporli in grandi visioni geopolitiche. Chi volesse avere un assaggio, nient’altro che un assaggio, di questa sua genialità può leggere, tra l’enorme massa di materiale che scorre in sudamerica e a lui attribuibile, il libro L’America Latina del secolo XXI, probabilmente l’estrema fatica dei suoi ultimi anni.
Le due grandi passioni della vita di Methol Ferré sono state la Chiesa e l’unità dell’America Latina. La Chiesa la conobbe in età adulta. Parlando di sé si è definito “un convertito dell’ultima ora”, e ha detto di sentirsi tale ancora oggi. Un giorno ha ricordato di non aver mai sentito parlare, nella casa dei genitori, di nulla che avesse a che fare con la Chiesa né di aver ricevuto formazione religiosa alcuna. La “scoperta” del cattolicesimo la data alla fine degli anni cinquanta, con le opere di Gilbert G. Chesterton, l’autore a cui lega la conversione vera e propria: «Ho capito da lui che l’esistenza è un dono, come la salvezza e la fede; che si è cristiani per gratitudine». Una gratitudine che era fonte di buonumore, allegria, e positivo sguardo sulla vita. «Da quando ho scoperto che la Chiesa è una realtà di uomini lieti, sessant’anni fa, la vita mi sembra sempre una novità sostanziale» ha detto una volta all’interno di un informale circolo di amici.
La passione per l’unità, l’altra grande passione, ha segnato buona parte della sua vita pubblica. Tanti gli studi su quella generazione di antesignani dell’integrazione, la generazione del ‘900, che a suo giudizio aveva intrapreso il passaggio da una visione nazionalista a una latinoamericanista. I Vasconcelos, Rodó, García Calderón, Ugarte, Blanco Fombona, Pereira. Sono i primi a capire che per sopravvivere l’America Latina deve realizzare qualcosa di analogo a quanto attuato dagli Stati Uniti d’America, però a partire da se stessa, dalla propria originalità cattolica, non come imitazione di un processo alieno. L’integrazione, per Methol Ferrè, obbediva anch’essa ad una logica profonda della realtà latinoamericana, che le battute d’arresto, i momenti di involuzione, non avevano la forza di smentire. Nel passato recente, individuava due principali ondate favorevoli all’integrazione. La prima che risaliva agli anni ’60 e si prolungava sino agli inizi del 1970, la seconda che aveva preso forza attorno al 1985 ed arrivava fino ai nostri giorni, con il consolidamento del Mercosur e il sorgere della “Comunità sudamericana delle nazioni”. Considerava, con grande realismo, che l’unificazione dell’America Latina poteva obbedire a tre tipologie diverse: quella di un continente unificato a partire dagli interessi degli Stati Uniti, da un’egemonia del Brasile o da un centro rappresentato da un’equilibrata unificazione di Brasile e Argentina.
Accennavamo alla gran mole di materiali di sua paternità che circola in America Latina. È un altro aspetto singolare della personalità di Methol Ferré. Gli articoli, una volta messi su carta, le conferenze, dopo essere state pronunciate, i testi, una volta consegnati al committente, per lui erano come altrettante bottiglie lanciate in mare. Le si affida alle acque e lì restano, in balia dei marosi, sballottate a destra e a manca come foglie secche. Fedele a questa convinzione, non ha mai compilato delle raccolte, non si è dato da fare per ottenere la pubblicazione di testi; le riedizioni esulavano completamente dalle sue preoccupazioni. Della pubblicazione dei suoi scritti – articoli, quaderni e finanche libri – se ne avvedeva se qualcuno glieli mostrava o gliene parlava. Quando la bottiglia, insomma, aveva raggiunto un qualche porto ed il contenuto era stato portato a contatto con l’aria di mare. Adesso migliaia di bottiglie galleggiano sulle acque. Lui ha raggiunto il porto.