In una mattina del dicembre ’83, gli studenti dell’Istituto agrario di Mietne entrando nelle aule videro che dalle pareti erano sparite le croci. Nel complesso scolastico, fondato nel 1924 in questo paesino a circa 70 km da Varsavia, studiavano 600 studenti seguiti da una cinquantina di insegnanti. Già con l’introduzione dello stato d’assedio (1981) e la messa al bando del sindacato indipendente Solidarnosc, erano stati rimossi molti simboli religiosi.



Non era la prima volta che in Polonia accadevano fatti del genere. In precedenza, durante il “disgelo” (1956-57), i crocifissi erano tornati nei luoghi pubblici grazie a singole iniziative che sfruttarono la debolezza temporanea del sistema totalitario. Scomparvero di nuovo qualche anno dopo, per ritornare durante il breve periodo di attività legale di Solidarnosc (1980-81).



In quel fatidico dicembre il direttore dell’istituto, R. Domanski, su pressione delle autorità locali di Siedlce, dispose la rimozione delle ultime 8 croci. «I tempi dell’illegalità sono passati: la scuola è un’istituzione laica in cui non v’è posto per le croci». Così la direzione aveva giustificato il gesto, senza lontanamente prevedere il vespaio che si sarebbe scatenato. I rappresentanti studenteschi chiesero inutilmente spiegazioni al direttore, il quale dichiarò di non essere credente e che avrebbe fatto di tutto per tenere i crocifissi fuori dalla scuola.



Al canto di “Noi vogliam Dio”, i giovani si mobilitarono e riscossero il sostegno dei genitori e del clero della vicina cittadina di Garwolin. Qui il decano in un messaggio ai fedeli commentò sarcasticamente: «Oggi trovi il signor direttore di Mietne che in nome dello Stato socialista profana le croci, domani trovi un altro direttore, che […] ti entrerà perfino in casa a toglierti il crocifisso dalle pareti solo perché vivi in uno Stato socialista».

Se le autorità provinciali, invece di irrigidirsi su posizioni intransigenti, avessero dato retta alla polizia politica, che aveva definito “poco realistico” il modo in cui la direzione scolastica stava affrontando il problema, forse la “guerra delle croci” si sarebbe risolta rapidamente. Invece continuò il muro contro muro.

Il 29 dicembre il vescovo Mazur si rivolse alle autorità con una lettera in cui definì la rimozione delle croci un “gesto di intolleranza”, diseducativo per i giovani e pericoloso in quel periodo difficile della vita nazionale, a pochi mesi dalla fine dello stato d’assedio.

 

All’inizio del gennaio ’84 gli studenti iniziarono uno sciopero sui generis:senza danneggiare le aule o improvvisarsi rivoluzionari, alternarono la recita del rosario al silenzio assoluto prima delle lezioni e durante gli intervalli. L’eco della loro protesta si diffuse rapidamente in tutto il paese, superò i confini del campo socialista e finì sulla stampa occidentale. L’Istituto per la Memoria nazionale conserva gli archivi del Dipartimento IV del ministero degli interni con i rapporti sugli episodi di solidarietà spontanea: preghiere, appelli, raccolte di firme, volantinaggi, striscioni (persino con citazioni letterarie, come al liceo di Torun!). il cardinal Macharski commentò: «Abbiamo cresciuto persone capaci di dare testimonianza, forti e decise. Basta con Erode e Pilato».

Mazur scrisse di nuovo alle autorità, appellandosi alla Costituzione per ottenere il permesso di rimettere le croci «dove la Polonia studia e lavora»; egli fece intuire allo stesso tempo la possibilità di incitare dai pulpiti al boicottaggio delle elezioni di giugno. A fine marzo lo stesso vescovo iniziò il digiuno, offerto per trovare una soluzione positiva. Si fece sentire anche Walesa, la cui presa di posizione si può riassumere così: tu, Stato, te la prendi ancora una volta con i più deboli; perché non provi a toglierci le croci ai cantieri di Danzica? Siamo pronti ad usare tutti i mezzi a nostra disposizione, ne va dei nostri ragazzi e della nostra coscienza.

Anche il papa accennò alla vicenda, rivolgendosi ai pellegrini polacchi: «Cristo crocifisso e risorto parla all’uomo. All’uomo imprigionato in tutto il dramma della sua esistenza personale, nell’esperienza della sofferenza e della morte. Cristo crocifisso e risorto costituisce per l’uomo una risposta, la risposta di Dio stesso. Nel nostro tempo mi rendo conto che l’indipendenza della vita del popolo deve esprimersi nella tutela e nel rispetto della sua soggettività».

 

 

Finalmente si giunse al compromesso: un unico crocifisso sarebbe stato appeso all’ingresso della biblioteca (pare sia ancora là!), il “clero ostile” avrebbe abbassato i toni e gli studenti in sciopero non avrebbero subito conseguenze.

Così il 9 aprile le lezioni ripresero. Diversa sorte toccò invece ai 300 studenti dell’Istituto professionale di Wloszczowa, che nel dicembre ’84 scioperarono per due settimane, anche lì contro la rimozione dei crocifissi. Pure loro furono sostenuti dai genitori e dal vescovo, Jaworski, il quale fu però costretto a far desistere i ragazzi, buona parte dei quali non fu poi ammessa alla maturità.

La campagna contro la Chiesa ebbe il suo culmine, come già raccontato su queste pagine, col barbaro omicidio di don Jerzy Popieluszko perpetrato proprio nell’autunno ‘84. A dicembre risuonò ancora la voce di Giovanni Paolo II: «Questa testimonianza è un richiamo alla presenza di Cristo nella nostra vita. Questo desidera chi crede nella nostra patria. Questo desiderano i giovani che, difendendo eroicamente assieme ai genitori la presenza del crocifisso nei luoghi di studio e di lavoro dei credenti, testimoniano che Cristo è per loro il valore più grande. La croce è il sostegno della vita morale dell’uomo – leggiamo nella lettera pastorale del 6 dicembre -. La croce è scuola di fratellanza e di amore, poiché su di essa si è compiuta la riconciliazione».

 

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