“The Noughties” è il termine in inglese per l’ultimo decennio, ma non, e questo è interessante, nell’inglese-americano, dato che nell’inglese-americano per indicare lo zero non si usa “nought”, ma “zero”, e per questo il decennio là è rimasto senza nome. Gli anni “zero” sono entrati nell’uso solo verso la fine del decennio, perché dieci anni fa eravamo troppo impegnati a pensare al millennio per chiederci come sarebbe stato il decennio.



Nei minuti finali del ventesimo secolo, il bug Y2K, il “millenium bug”, minacciava di mandare in crisi i sistemi It in tutto il mondo al rintocco della mezzanotte. Il problema era iniziato con una falsa economia. Nel tentativo di risparmiare spazio nella memoria, i costruttori di computer avevano concentrato il datario in due cifre anziché quattro, creando la possibilità di una lettura dello 00 come 1900, invece di 2000, provocando il caos.



Tutto è finito in nulla, ma ha stranamente offerto una anticipazione dell’umore di un decennio definito da falsi allarmi e da inattese ma reali catastrofi. Alle calcagna di Y2K sono venute la Sars, l’aviaria e infine la suina, e hanno mancato tutte la prevista distruzione dell’umanità. Tuttavia, non mancavano le preoccupazioni reali, dato che stavamo entrando, dopo tutto, in uno dei secoli più pericolosi della nostra storia, un secolo dove è possibile che qualche pazzo possa sviluppare nel proprio garage una qualche arma di distruzione di massa e con questa ricattare il mondo.

In retrospettiva, i “Noughties” rimarranno definiti da un orrore così reale da essere inimmaginabile. Alle 15:28 dell’11 settembre 2001 tutto ciò che consideravamo acquisito è stato vanificato. L’11 settembre può essere interpretato sia come una rappresentazione di performance art che come un ignobile atto di malvagità terroristica. Tuttavia, non sembra plausibile che il distorto simbolismo del crollo delle torri gemelle possa essere stato un elemento intenzionale di questo attacco senza precedenti, penetrato nel centro della fiducia e compiacimento postbellici. Gli avvenimenti della fine decennio, il crollo dei mercati finanziari e dei valori immobiliari, sembrano essere stati predetti in modo inquietante in quei momenti di incubo.



La società occidentale da quel momento è sembrata rifugiarsi nella postura dello struzzo. Come se la verità profonda fosse troppo orribile da contemplare, dato che metteva in luce la vulnerabilità di una civiltà che per mezzo secolo ha saltellato nel recinto della sicurezza e della prosperità. Così, nel primo decennio del secolo, il dibattito politico più persistente è stato attorno al fatto che Bush e Blair avrebbero dovuto intuire che Saddam non aveva armi di distruzione di massa, e loro sono diventati i cattivi, non Saddam o Bin Laden.

L’11 settembre ha riprodotto per tutto il decennio l’eco di un avvenimento accaduto molto prima, all’inizio della età adulta della generazione ora detentrice del potere culturale: il Vietnam. Dal 2003 in poi, i “Noughties” sono stati una ripresa del 1968, di ricordi repressi di MyLai, RFK e Richard Nixon. La generazione del ’68 era ancora alla ricerca dei suoi Tricky Dick e in Bush e Blair ne ha trovati due al prezzo di uno.

I sopravissuti della controcultura hanno evitato di affrontare i pericoli attuali rivisitando le emozioni della gioventù, ignorando le realtà morali in favore di una moralità imposta, radicata in una storia più semplice. Così, la sciagura dell’11 settembre è stata trasformata in un film del tutto diverso, dove il finale poteva essere scritto dai sogni rimasti della controcultura.

Passiamo rapidamente al gennaio 2009 e all’insediamento del primo presidente nero degli Stati Uniti, una miscela su misura di JFK, RFK e MLK, forse il prodotto finale della controcultura degli anni ’60 prima della nascita di una nuova coscienza. Obama, che solo un anno fa era il depositario delle speranze inzuppate di nostalgia dell’Occidente, è ora il centro di un silenzio che cresce di intensità. Sebbene non sia (ancora) scivolato nella disapprovazione, vi è la sensazione che molto di ciò che prometteva, per non parlare delle sue promesse, si sia dimostrato inconsistente.

 

Le cose non sono certamente facilitate dai suoi modi irritanti, per cui ogni pensiero banale viene trasformato in un’orazione alla JFK. Uno può immaginarselo arrivare per il breakfast e rilasciare una breve storia delle uova, lodando l’industriosità della comunità delle galline, per poi rompere cerimoniosamente il guscio con il cucchiaio. “E non solo uova sode, ma uova di ogni tipo e colore”.

 

Ma questa non è che la descrizione superficiale di un problema più profondo. Obama è stato eletto in base a una sorta di sceneggiatura ripresa dagli anni ’60, in cui i buoni possono vincere. Diventando presidente. Obama ha ereditato sia le aspettative di questa cultura politica retrò, sia le realtà effettive del 2009. Nella sua campagna ha posto la priorità sull’Afghanistan, una guerra dimenticata, e promesso il ritiro dall’Iraq, ma anche lui sa benissimo, come lo sapevano Bush e Blair, che i due conflitti sono radicati nelle stesse realtà.

 

Ora siamo a circa sei mesi dalla data del promesso ritiro dall’Iraq, con scarse probabilità che i tempi possano venir rispettati. In realtà, la sua politica irachena è attualmente indistinguibile da quella di George W. Bush, anche se è riuscito ad evitare qualsiasi discussione su questo punto semplicemente non parlandone. Nelle recenti settimane ha iniziato un’accelerazione in Afghanistan che, se fosse stata fatta dal suo predecessore, avrebbe provocato dimostrazioni in tutte le capitali europee e dei Paesi di lingua inglese. Per il momento, Obama si crogiola nello studiato doppio pensiero della generazione che lo ha salutato come il messia, incamerando un “premio per la pace” per meritare il quale non ha fatto nulla.

 

Il primo presidente nero americano è la creazione voluta dalle generazioni del dopoguerra che non hanno mai capito che in politica si tratta di scegliere il minore dei mali. La sua personalità risponde al massimo grado al desiderio di queste generazioni di evitare i fatti e di trasformare la realtà in una cattiva sceneggiatura di Hollywood. La sua elezione è stata la scena finale di quello che forse è l’ultimo film sul Vietnam, un film che lui e i suoi elettori avrebbero preferito finisse al momento del suo insediamento, lasciando il dopo alla romantica immaginazione dell’epoca, mentre i titoli di coda continuavano a scorrere sul volto sorridente dell’eroe.

 

Ma Obama ha dovuto entrare in carica e ora deve perseverare, nelle scarpe del vituperato George W. Bush, facendo per lo più le stesse cose per più o meno le stesse ragioni. A Tony Blair ci vollero sei anni per trasformarsi da Kennedy a Nixon. Il nuovo decennio (i “dieci”, che si suppone, possa andare bene su entrambi i lati dell’Atlantico) non dovranno che iniziare per far subire lo stesso destino a Barack Obama.