Cent’anni fa, nell’estate del 1909, l’aviatore francese Louis Blériot volava per la prima volta attraverso il canale della Manica. Dopo la spettacolare impresa del primo volo dei fratelli Wright di sei anni prima, l’immaginazione umana degli uomini di inizio secolo (come del resto avvenne nel 1969 con lo sbarco sulla Luna) fu catturata ancora una volta dalla meraviglia per l’inimmaginabile conquista del volo.



In Italia, fu D’Annunzio, solo un anno dopo l’impresa di Blériot, il primo letterato italiano a recepire l’importanza simbolica della nuova invenzione dell’aeroplano, nel suo ultimo e lungamente atteso romanzo Forse che sì forse che no. Nel testo, sullo sfondo di una storia d’amore d’autore, il tipico superuomo dannunziano vestiva infatti per la prima volta i panni di un pilota d’aereo, Paolo Tarsis, in competizione con l’aviatore Giulio Cambiaso per il cuore di una donna (Isabella), ma anche e soprattutto per la conquista del record di altezza con un monoplano. Nella scena centrale del libro della competizione di volo tra Paolo e Giulio, D’Annunzio rappresenta la sfida della modernità di «conquistare il cielo magnifico» e in essa l’inizio della «novissima età» dell’«assunzione dell’uomo». Nella narrazione, Giulio, tradito dal motore del suo velivolo, precipita a terra e muore tra le fiamme, mentre, nello stesso momento, Paolo (con il suo aereo, l’Árdea) arriva al suo compimento eroico della propria impresa, culminante nel suo «è nostro il cielo», a rappresentare la nuova raggiunta divinità dell’uomo.



Dov’è Dio ora che anche il suo regno è stato occupato? – sembra domandare il Vate in questa narrazione – e cosa manca all’uomo, ora che ha violato anche l’ultimo suo limite, per diventare come Lui? Da invenzione tecnica prodigiosa, mossa dalla curiosità e dall’anelito umano verso l’Illimitato, il volo si trasforma così, nella sua rappresentazione culturale, in uno dei simboli più potenti della velleità dell’uomo novecentesco di sostituirsi a Dio.

 

Dalla straordinaria esperienza aerea – sia della eliminazione delle distanze e delle stesse frontiere nazionali, che della simultaneità di sguardo su tutta la realtà nella vista dall’alto – la fascinazione per il volo diventa presto nella riflessione culturale l’emblema di un potere: il potere di appiattire (come nella nuova esperienza, tristemente perfezionata durante la Grande Guerra, del bombardamento aereo sulle città, anticipata dalle narrazioni aeree marinettiane in La battaglia di Tripoli e Zang Tumb Tumb); il potere di imporre dall’alto una posizione intellettuale (come nel velleitario volantinaggio antiaustriaco di D’Annunzio nel suo volo sopra Vienna del 1918; o, nel 1931, in quello fallito dell’antifascista Lauro De Bosis, allora professore a Harvard, sopra la Roma di Mussolini, terminato tragicamente nelle acque del Tirreno); ed infine il potere della volontà dell’uomo dominatore (come nell’incipit del celebre film di Leni Riefenstahl, Il trionfo della volontà, reportage sul congresso del partito Nazionalsocialista del 1934, in cui il volo iniziale di Hitler su Norimberga e la focalizzazione sul suo sguardo dall’alto tra le nuvole del cielo, lo equiparano appunto a un nuovo dio).



La tragedia delle due guerre mondiali e il fallimento delle ideologie come progetti umani di dominio sulla realtà totale, hanno ampiamente mostrato la fragilità del volo presuntuoso della modernità. All’immaginario prebellico dell’ascesa e della conquista della volontà, si è affiancato così, con sempre più forza, quello postbellico della caduta: non solo quella simbolica di Icaro -come nel quadro omonimo di Matisse del 1943 (proprio nel pieno della seconda guerra mondiale)- ma anche quella tragicamente reale, scavata nella memoria collettiva dal terrore per una scomparsa (da quella di Saint Exupéry nel 1944 a quella recente dell’AirFrance sull’Atlantico) o per una manomissione terroristica (dalle stragi di Ustica e Lockerbie fino alle Torri gemelle).

Alla meraviglia per la tecnica e all’orgoglio per il proprio potere sulla realtà, si sostituisce e prevale così, nell’immaginario tardomoderno, la percezione della propria fragilità in bilico sul nulla e con essa la negazione a priori del desiderio di volare alto.

 

Non è un caso che nella prima delle lezioni harvardiane (ora Lezioni americane), dedicata alla leggerezza, Calvino offra una lettura della cultura odierna proprio attraverso l’immagine inquietante di un salto nel vuoto – quello di Cavalcanti sopra le tombe degli epicurei – e di un volo prolungato sopra l’abisso. Sospesa in volo precario sopra un cielo ormai vuoto e paralizzata dalla paura della gravità, tale immagine rappresenta una cultura che vola leggera a bassa quota, prigioniera del proprio relativismo e del proprio pragmatico nichilismo: si racconta per non cadere (come teorizzava Calvino nel 1985 poco prima della sua morte), ci si mette insieme per non precipitare nel nulla (si pensi alla politica dell’Unione Europea), si riempie il tempo di attività per non cadere nell’abisso delle nostre domande più profonde (come accade in tanti progetti educativi per la scuola).

Dentro questo contesto, anche con il cuore ferito, la meraviglia per il volo tuttavia permane negli uomini vivi, e con essa la meraviglia e lo stupore per le cose grandi, l’ardore di abbracciare la realtà, la gioia di sentirsi vicini e solidali e l’anelito a riprovarci, a ricominciare (come testimonia il rosso cuore ardente dell’Icaro di Matisse, di un anno successivo alla sua Caduta). La coscienza della propria fragilità di fronte all’enormità sproporzionata dei nostri desideri – persino di volare – diventa così l’inizio di un volo vero e di una cultura nuova: che non si accontenti del poco, di stare in aria, ma sia invece domanda di partecipazione all’Essere (come nell’ascesi verso il cielo di Perelà, l’uomo di fumo palazzeschiano) e affascinante approfondimento di quel mistero di Dio che, molto più che nel cielo, abita nel mistero del nostro cuore, da sempre.