Nei giorni che hanno preceduto la tragica morte di Eluana Englaro si è fatta sempre più evidente e pesante una distorsione del linguaggio che non può passare sotto silenzio. Invece di descrivere quello che veniva effettivamente fatto a Eluana, e dire quindi che veniva tenuta in vita con una «alimentazione assistita», si è preso a parlare di «accanimento terapeutico»; poi, invece di usare espressioni come «sospensione dell’alimentazione» si sono preferite formule più neutrali e inoffensive come «applicazione del protocollo»; in tutti i modi si è cercato di negare che il decreto che autorizzava a sospendere l’alimentazione fosse nei fatti, se non proprio una condanna a morte, almeno l’autorizzazione a far morire una persona viva.
È un uso delle parole per lo meno discutibile e capace di evocare memorie inquietanti dal secolo appena trascorso e dai suoi totalitarismi.
Uno dei primi passi per la costruzione e l’assestamento di un sistema totalitario è in effetti il lavoro di falsificazione e svuotamento della lingua: per dominare la realtà bisogna far sì che non la si possa più chiamare con delle parole che tutti intendiamo in maniera sufficientemente omogenea; così solo il potere potrà dare il nome alle cose, e sarà un nome cui non corrisponderà più la realtà nominata. Basterà qualche esempio tratto dalla storia di comunismo e nazismo.
In Unione Sovietica, la pena di morte, reintrodotta da Lenin almeno dal 1918, a partire dal 1927 non viene più chiamata con questo nome ma con il più accattivante «misura di difesa sociale»: per poter uccidere una persona senza eccessivi rimorsi di coscienza, si deve avere l’idea che non sia un essere umano, ma un insetto nocivo, un essere contro natura, o che va contro l’idea di natura che il regime impone ai suoi sudditi. Non casualmente la barbarie nazista portò a chiamare «incesto» i rapporti sessuali tra un ariano e una non ariana: per poter eliminare esseri umani a milioni, bisognava convincersi che fossero esseri contro natura.
Così, nei campi di concentramento sovietici si moriva a milioni, ma a partire dal 27 giugno 1929, dopo che negli anni precedenti li si era chiamati in modi diversi, si comincerà a chiamarli «campi di lavoro correzionale», campi di rieducazione attraverso il lavoro (in sigla ITL). Anche qui non è un caso che diversi anni dopo in un documento interno delle SS, parlando di Rudolph Hoess e della sua attività come comandante del campo di Auschwitz dal 1940 al 1943 si dica: «Hoess non è soltanto un buon comandante di campo, ma in questa sfera d’azione si è rivelato un vero pioniere, per il suo apporto di nuove idee e di nuovi metodi educativi».
In Unione Sovietica come nella Germania nazista, l’educazione cessava dunque di essere quello che le persone normali intendono con questa parola e diventava l’eliminazione della realtà attraverso lo sterminio, l’abolizione dell’uomo reale sostituito prima con un’idea e poi fisicamente ridotto a nulla.
Nessuna somiglianza deve ingannarci: le due ideologie totalitarie che hanno segnato il XX secolo sono finite; ma in un certo uso del linguaggio permane la forma vuota dell’ideologia, una concezione tutta ideologica della realtà, che si pone al di sopra di essa e pretende di poterne disporre sino a negarla. Invece, non in nome di qualche ideologia più ricca e migliore di nazismo e comunismo, ma in nome della realtà, la vita è indisponibile.
Quello a cui abbiamo assistito in questi giorni non è uno scontro ideologico tra due partiti (laici contro credenti o cultura della libertà che si autodetermina contro cultura della vita, ecc.), non è lo scontro fra due ideologie, ma fra la realtà irriducibile e indisponibile della persona umana e chi la nega.