Le parole pronunciate da Benedetto XVI nell’incontro di ieri con i leaders delle principali associazioni ebraiche americane sono state di forza e portata storica.
Intanto perché hanno chiuso l’odiosa polemica innestata dal Vescovo Williamson e da altri esponenti a questo vicini sul tema del negazionismo.
La Chiesa Cattolica, ha riconosciuto il Papa, condanna ogni forma di minimizzazione o negazione della Shoah. La Shoah rappresenta un crimine contro Dio e contro l’umanità. Il messaggio è inequivocabile perché la persecuzione del Popolo Ebraico, in tutte le forme in cui si è manifestata nella storia, è una ingiustizia, non solo nei confronti degli uomini che la hanno patita, ma anche verso Dio. In altre parole, l’antisemitismo è intollerabile e costituisce una delle modalità più terribili con cui l’uomo ha cercato di estromettere, cancellare, relativizzare il senso religioso.
La condanna, quindi, riguarda, sia il tentativo di proporre una distorta e strumentale ricostruzione dei fatti, sia una tendenza al male che potrebbe pur sempre riproporsi nel futuro.
Benedetto XVI in proposito ha richiesto inoltre una costante autoresponsabilizzazione. Non è sufficiente chiedere perdono per il passato, se non si assume al contempo «l’impegno irrevocabile per relazioni rispettose e armoniose con il popolo dell’Alleanza». Il tutto finalizzato a portare «frutti abbondanti».
Impegno, responsabilità, azione: questi sono tre concetti fondamentali sostanzialmente ricordati da Benedetto XVI.
Il dialogo ebraico-cristiano, in base a tale impostazione, assume quello che è probabilmente il suo significato più forte e rilevante.
Non è infatti più limitato al confronto teologico, alla ricostruzione oggettiva di un passato spesso tragico e controverso, ma richiama gli uomini di fede, nel rispetto delle diversità, ad agire – tutti, indistintamente – in prima persona. Non a caso, gli ebrei sono chiamati «padri nella fede» e, altrettanto non casualmente, è quanto mai significativa la menzione del concetto di «Alleanza». Lo stesso viaggio in Israele assume allora una valenza straordinaria perché muove dalla esaltazione del rapporto con l’ebraismo di cui lo Stato ebraico costituisce la più evidente espressione di vitalità e anelito alla trasmissione identitaria di generazione in generazione.
Ebrei e cristiani devono oggi alzare l’asticella dei loro rapporti, testimoniare insieme nella società il valore essenziale dell’esperienza religiosa.
La centralità della persona umana, la sua costante tutela e promozione, il rispetto dei diritti universali dell’uomo e di ogni forma di libertà, in un mondo malato di relativisimo, richiedono uno sforzo comune, abbandonando sterili e inutili tendenze all’isolamento.
Il mondo ha bisogno di sensibilità e senso religioso.
Da ieri, ebrei e cristiani sono più vicini e saldi in un compito che non accetta esclusivismi, ma richiede una comune responsabilità.