Parigi, 20 febbraio 1909. Dalle pagine del Figaro il poeta italiano Marinetti lancia, con il suo Manifesto del futurismo, non solo una provocante campagna per il rinnovamento delle arti e della politica, ma anche la grande stagione europea delle avanguardie. Di provocazione in provocazione (dall’esaltazione della guerra “sola igiene del mondo” all’invettiva contro il femminismo; dalle serate futuriste all’incitamento alla distruzione di musei, accademie e biblioteche) e di manifesto in manifesto (divenuto nelle mani di Marinetti un vero e proprio genere letterario in sé), il movimento futurista segna certamente un punto significativo di tangenza tra la cultura post-risorgimentale di un’Italia ancora agli inizi del proprio processo di industrializzazione e il modernismo europeo, proponendosi, in un momento di transizione tra i secoli, come uno snodo culturale molto rilevante per la ridefinizione della civiltà moderna.
Come sarà l’uomo del futuro? Quali caratteristiche avrà? Sembravano chiedersi i marinettiani, quando, in una belle époque sull’orlo del baratro della prima guerra mondiale, si pensava davvero di essere “arrivati”, con le straordinarie innovazioni tecnologiche del tempo (il cinema, la radio, la fotografia, il telefono, l’aeroplano per fare qualche esempio), ad una “liberazione” dell’uomo dal proprio passato, dalla tradizione, dalla guerra, dalla propria corporalità e dai propri stessi limiti.
Quali caratteristiche avrà l’uomo moderno? Teorizzavano dunque i futuristi, nella loro riflessione artistica, agli inizi del ventesimo secolo. Innanzitutto, come lo Zarathustra nietzschiano e il Mafarka marinettiano, sarà nuovo: al modo odierno (che si definisce come rottura con il prima) e libero dai vincoli del passato (da qui l’appello a bruciare il sapere vecchio dei musei, delle biblioteche, della religione cristiana, della sintassi tradizionale). Sarà poi un uomo simultaneo, onnipresente, capace non solo – cosa inaudita fino a questo momento della storia dell’umanità -, grazie ai nuovi mezzi di comunicazione (cinema, giornali), di essere presente in ogni angolo del pianeta in tempo reale, ma anche di elaborare un nuovo codice complesso che combini diversi linguaggi in una nuova arte ibrida (come nelle tavole parolibere marinettiane o nel suo romanzo simultaneo Zang Tumb Tumb). Sarà inoltre un uomo leggero, smaterializzato – senza più un corpo stabile e non più ancorato ad un luogo preciso – che vivrà nell’etere, in costante trasformazione, al passo della “nuova religione” della velocità e del progresso. L’uomo del futuro sarà infine, sorelianamente, un uomo d’azione: tutto corpo (in attiva compenetrazione con la macchina industriale) tutto risultati (nell’illusione di poter vivere di automatismi) e tutto immanenza (consistente solo nel suo essere agente di intervento e cambiamento sulla realtà). In sintesi, in Marinetti diventa esplicito, è abolendo l’“io” che l’uomo sarà davvero moderno.
Le tristi vicende del secolo – dall’avvento della società di massa (con la spersonalizzazione dei totalitarismi novecenteschi), all’“inutile strage” della grande guerra europea (quella che doveva porre fine a tutte le guerre), fino alla “rivoluzione” fascista (presentata futuristicamente come il definitivo avvento della modernità nel paese) – sembrano offrire un quadro esplicito e desolante del fallimento di tale visione futurista.
Apparentemente sepolta con la morte di Marinetti nel 1944 e la seconda guerra mondiale, l’esperienza futurista tuttavia ritorna di stretto interesse nel dopoguerra, non solo con l’avvento delle neoavanguardie e del postmoderno (è curiosamente del 1968 la prima edizione di tutte le opere di Marinetti), ma anche, nell’ultimo ventennio, con l’avvento della cultura globale il progressivo venir meno del pregiudizio ideologico legato alle sue complici connessioni con il regime fascista.
A questo punto è lecito porsi una domanda, anzi due. Per quale motivo, a cent’anni di distanza, si torna a interessarsi del futurismo? E, ora che nel futuro ci siamo per davvero, cosa rimane di quel progetto?
La risposta ce la offre il paragone tra il contesto culturale della belle époque e quello della globalizzazione, in cui ci troviamo, con la sua esplicita ambizione a portare a compimento il progetto fallito della modernità illuministica e positivistica. Anche noi uomini del 2009, come nel 1909, sembriamo vicini, con le straordinarie innovazioni tecnologiche dell’ultimo ventennio, ad “arrivare” a un punto dove saremo davvero “liberi” (quando avremo un mercato veramente globale, una democrazia globale, una pace perpetua globale) e anche noi moderni condividiamo le caratteristiche dell’uomo del futuro marinettiano: senza corpo (come suggerisce il dilagare con internet o Facebook, di un nuovo modo a-corporale di concepire i rapporti), simultanei (grazie a Skype, alle video conferenze e alla straordinaria capacità dei trasporti di trasportarci in tempi relativamente brevi in ogni luogo dell’orbe), slegati dal passato (nella logica obamiana del cambiare tutto per poter essere), tutto azione e tutto risultati (determinati come siamo solo dalla nostra capacità di performance, come è risultato evidente nella tremenda attualità del caso Eluana).
Anche noi, bruciata la radice con Dio e vivendo nella velleità di vivere automaticamente (di rimuovere, con l’io, quella libertà che ci dà tanto fastidio), osserviamo, di fronte al franare della storia sotto i nostri piedi (con la caduta del comunismo e, chissà, forse anche del capitalismo), i segni dell’incapacità umana di una vera emancipazione, pur di fronte all’aspirazione buona di creare una società più vera e più giusta. La storia di questo secolo, insegna che, dopo aver bruciato in nome del progresso, non rimangono che i frammenti di una realtà senza logica e senza fondamento: come dopo la prima guerra mondiale, ci troviamo ad un bivio, tra il bisogno di ritrovare e riaffermare un fondamento al vivere comune (come ci ricorda il papa, sulla scia del suo predecessore Benedetto XV) e il radunare di nuovo le nostre rovine in un nuovo collage ideologico. Se la crisi attuale, come Obama non smette di ricordare, è il luogo dove si gioca la ridefinizione dell’uomo del futuro, non resta che sperare ed impegnarsi perché l’uomo del ventunesimo secolo sia un po’ meno barbaro di quello del secolo passato.