Con il mio libro “Operazione Walchiria. Hitler deve morire” (ed. Ares, 2008) ho cercato di portare luce su uno degli enigmi che, ormai da 65 anni, gravano sull’Operazione Walkiria, ovvero il complotto per uccidere il Führer: se cioè la Chiesa fosse al corrente dell’attentato e ne avesse dato un implicito assenso. Il primo a parlarne fu Constantine Fitz Gibbon, storico irlandese, uno dei massimi studiosi del 20 Luglio. Nel suo libro «Shirt of Nessus» (Londra, 1956), sostenne che von Stauffenberg si confessò dall’arcivescovo di Berlino, cardinale conte Konrad von Preysing, senza tuttavia ricevere l’assoluzione. L’arcivescovo gli avrebbe però detto che «non si considerava autorizzato a trattenerlo in base a motivi ideologici». Una decina d’anni dopo, da me intervistato a Berlino durante l’inchiesta giornalistica che condussi sull’attentato, padre Harald Pölchau, il cappellano del carcere di Tegel che aveva assistito, in punto di morte, i massimi esponenti del complotto, tra cui von Moltke, Alfred Delp, Julius Leber, York von Wartenburg, von Hase e von Witzleben, mi disse di avere appreso da quei condannati, senza ombra di dubbio, che von Stauffenberg si era confessato, aveva ricevuto l’assoluzione e si era anche comunicato. Lo aveva raccontato loro lui stesso.
Nel 1963 fu inaugurata a Berlino, nel quartiere operaio di Siemensstadt, la chiesa cattolica Regina Martyrum, edificata in memoria dei religiosi impiccati in seguito ai fatti del 20 Luglio. All’inaugurazione era presente il cardinale Julius Döpfner, attorniato dai vescovi della Germania. Tutti dissero che, avendo fatto costruire quel tempio, la Chiesa di Roma implicitamente aveva ammesso la liceità del tirannicidio. Appare in ogni caso assai verosimile che l’arcivescovo Konrad von Preysing (il quale sarà nominato cardinale da Pio XII nel marzo 1946 assieme al vescovo, già perseguitato dai nazisti, conte Clemens August von Galen) abbia prontamente e doverosamente comunicato alle gerarchie superiori ciò che aveva appreso da Stauffenberg. Del quale, in ogni caso, è ampiamente provata (e testimoniata sia dalla moglie, contessa Nina, mancata nel 2006, sia dai tre figli, di cui uno generale della Bundeswehr e un altro deputato al Parlamento europeo) la profonda fede cattolica. E questo particolare – per inciso – nel pur avvincente film che il regista Bryan Singer ha dedicato al 20 luglio non viene neppure accennato.
Il riferimento alla fede cattolica fu un elemento centrale che contraddistinse tutti i movimenti tedeschi di resistenza al nazismo e alla sua folle politica razziale. Già i fratelli Hans e Sophie Scholl, gli animatori del movimento della «Weisse Rose» (la rosa bianca), studenti dell’Università di Monaco di Baviera, decapitati perché avevano osato distribuire volantini di dura critica a Hitler, erano di matrice cattolica. Ispiratore dei fratelli Scholl, e dei loro amici, che assieme ad essi salirono al patibolo, fu infatti il professor Kurt Huber, titolare di filosofia teoretica e profondamente cattolico. Nella sua ultima lettera scrisse: «La morte è la bella copia della mia vita».
La resistenza al nazismo sviluppatasi in Germania fin dall’indomani della «Ermaechtigungsgesetz» del 23 marzo 1933 (la legge sui pieni poteri), è tutt’ora poco conosciuta e sottovalutata. In realtà, nonostante il regime di terrore e di violenza, si sviluppò, nei vari strati della popolazione, una opposizione che andava dal non allineamento, fino al segreto aiuto prestato agli ebrei perseguitati; dalla critica, fino al complotto attivo. Schierata in primo piano contro il regime troviamo la Chiesa cattolica. L’enciclica «Mit brennender Sorge» di Pio XI, del 18 marzo 1937, suonò chiara ed inequivocabile condanna del nazismo, bollato come ideologia pagana e razzista. Subito dopo, per ordine di Hitler, le associazioni cattoliche furono sciolte, i direttori delle loro riviste arrestati e sovente condannati a morte, decine di ecclesiastici sottoposti a persecuzioni grottesche (processi-farsa per frodi valutarie o atti di immoralità furono imbastiti contro vescovi e semplici parroci), conventi e beni ecclesiastici confiscati, secondo un canovaccio direttamente mutuato dai giacobini della Rivoluzione francese e fatto proprio anche dai regimi comunisti.
Ciononostante, il vescovo di Muenster, conte Clemens August von Galen, trovò il coraggio, nel ’41, di pronunciare un’omelia «contro le persecuzioni razziali, la folle eutanasia, gli arresti indiscriminati, la violazione dei più elementari diritti umani». Mentre gesuiti celebri come padre Alfred Delp e padre Augustin Roesch, provinciale dell’Ordine in Baviera, divennero le guide spirituali del Circolo di Kreisau, da dove uscirà il colonnello Claus von Stauffenberg, l’attentatore del 20 luglio ’44.
Diversa la vicenda della Chiesa protestante, una parte della quale si era schierata fin dall’inizio con il nazismo. Nel luglio ’34 si arrivò all’inevitabile scissione. Si formò la Chiesa nazionale dei «Deutsche Christen», che elesse il «Reichsbischof», il «vescovo del Reich», nella persona del pastore Ludwig Mueller. I pastori di stirpe non ariana furono cacciati. L’«Arierparagraph» proclamò la guerra incondizionata contro gli ebrei e la «santa alleanza tra la Croce uncinata e la Croce di Cristo». «Noi siamo – scrisse il «Reichsbischof» – le SS di Gesù nella lotta per la distruzione dei mali fisici, sociali e spirituali della nazione». I dissidenti e gli espulsi reagirono a quelle sciocchezze con un sinodo tenuto a Barmen. Fu costituita la «Bekennende Kirche» i cui capi spirituali divennero il teologo Hans Barth e i pastori Martin Niemoeller, Hans Asmussen e Dietrich Bonhoeffer. Molti membri pagheranno con la vita, assieme a parecchi preti e vescovi cattolici.