A quattro anni dalla sua scomparsa, è tempo per me di compiere un altro passo sulla via del riconoscimento di quel che devo a don Giussani. In una precedente occasione, ho detto di quanto mi passò da parte a parte nel mio unico incontro a quattr’occhi con lui, rinviandomi alla fede di mia madre e alludendo a quanto avesse contato per lui la sua, Angelina, come anche la mia si chiama. Con ogni probabilità, chi mi conosceva da Torino ed era nel movimento gli avrà detto qualcosa prima che ci incontrassimo. In ogni caso non fu la fattualità della circostanza, al contrario la sua assoluta imprevedibilità da parte mia a scuotermi dalle fondamenta.
Avevo già letto Il senso religioso, L’impegno del cristiano nel mondo, Tracce d’esperienza cristiana, nonché tutto quanto dei seminari e degli incontri tenuti da don Gius fosse stato sino a quel momento edito, e avevo imparato a riconoscere dall’eco che si produceva in me la forza di una spinta che nient’altro mi dava. Da anni ero alle prese con uno smottamento sempre più profondo dell’edificio interiore che avevo autonomamente eretto intorno a un razionalismo rigorosamente materialista e agnostici sta, e l’atteggiamento di solidarietà al mondo e all’umano – che pure era prepotente e mi aveva spinto alla politica fin da ragazzino – aveva al più la mera consistenza dell’amor fati stoico. La torre intellettuale che avevo costruito aveva molte crepe, ormai, frutto di domande ed esperienze nuove che avevano minato fondamenta e mura portanti. Don Gius, con le sue parole per me purtroppo solo scritte e mai udite, nella seconda metà degli anni Novanta agì su di me con la forza di un amorevole minatore, di quelli che scavano la vena con una lena che non è intaccata dal non trovar pepita. Alla fine, devo soprattutto a lui e all’esperienza intellettuale condotta sui suoi libri e testimonianze – esperienza di riflessione molto spesso praticata e condivisa che sostenevo in ospedale nel tratto terminale della propria esistenza – la nuova dimensione dell’Io, del Sé e degli Altri su cui la mia esistenza ha preso a inoltrarsi. Le tre dimensioni implicano concettualmente per me il problema dell’etica, quello logico-cognitivo, e la sfera dei fini e dei limiti dell’azione, cioè la prasseologia.
Mi rendo conto che messa così sappia di insopportabile autocentratura, e che una conversione vera e profonda è qualcosa di assai diverso da un percorso che sostituisca a un individualismo al massimo vagamente deista, un personalismo nel quale logica, morale e valore concreto dell’atto assumono “l’altro da sé” e non più “il sé e per sé” come unico orizzonte del possibile e del giusto. Ma ognuno è chiamato diversamente ai conti con il diverso se stesso che aveva costruito in precedenza. Per me la lettura, lo studio dell’esegesi delle fonti della Scrittura, poi quello sulla storicità del Cristo e sul suo operato, infine quello della Chiesa e della sua Tradizione, tutto ha comportato anni di interrogazione solitaria. Non erano prodotti dallo stridìo della sventura dell’umanità, i dubbi che avevo sempre più profondi. Né dall’attrattiva del puro amore di Dio che risuona nella vertigine di Meister Eckart o di altri mistici. Le lettere ”In attesa di Dio” di Simone Weil a Padre Perrin – appena riedite in forma completa, consiglio di leggerle a tutti – non sono il “mio” orizzonte di conversione, anche se immagino quanta forza abbia potuto avere quel tipo di stimoli nell’atroce carnaio consumato negli anni Quaranta dal superomismo eticamente auto fondato – fosse esso di colore rosso e nero – che ha insanguinato il Novecento. A dire la verità, era stata tutt’altra prospettiva a iniziare a mettermi in crisi, la lettura della Montagna dalle sette balze di Thomas Merton, e di come proprio in quegli stessi anni di furore mondiale un disordinato materialista impregnato d’arte, letteratura e di studi a Cambridge, avvertisse dentro di sé un ribaltamento di prospettiva tanto forte da indurlo a decidere di chiudersi in una Trappa.
Non potrei mai dire sinora di me quel che Simone Weil dice di esserle capitato recitando intensamente “Amore” del metafisico seicentesco George Herbert: “Cristo stesso è disceso e mi ha preso”. No, per me il cammino, che è ben lungi dall’essere compiuto, dopo lunghi deserti di sole domande e periclitanti certezze alla fine ha incontrato un’oasi dove abbeverarsi e guardare alle stelle con spirito diverso dal viaggiatore disperato. L’insegnamento per dimostrazione concreta della piena compartecipazione della fede alla ragione “per arrivare alla realtà, seguendo l’invito della realtà”, come diceva don Gius, il rispecchiarsi nell’Altro come una unica dimensione del Sé – scongiurando e sconfiggendo quella altrimenti desolante noia dell’Io prigionero del Sé, figlia di ogni razionalismo soggettivista e auto fondato – e infine – anche se è primo rispetto al resto – il “fatto” del Cristo inteso come carne e sangue che irrompe nella storia e per una salvezza che è innanzitutto storia del “centuplo quaggiù”, sono queste tre le nuove pietre angolari che don Gius mi ha regalato, con lo stesso spirito di didattica dialogante che ha sempre seguito coi giovani, sin dalla sua prima esperienza insegnando religione in un liceo.
Al punto in cui sono giunto, non credo affatto che la fuga dalla più grande rivoluzione nella storia – il Cristo – si confuti attraverso l’esperimento di forme per così dire “implicite” dell’amor di Dio, come fanno tanti razionalisti in dubbio, interrogandosi sul senso vario e generale di una religiosità analizzata sub specie di antropologia culturale levy-straussiana. Al contrario, la rivoluzione del Cristo-Uomo si affronta partendo dalle parole e dai fatti storicamente testimoniati del suo attore e motore, e caparbiamente calandoli in ogni diversa realtà e carne e sangue del suo come del nostro tempo. Usando la testa e in pieno esercizio della libertà, categoria fondante del rispetto dell’Uomo nel quale il Cristo decise di farsi per interrogarci con lui.
C’è una notte, una notte particolare ferma nel mio ricordo un paio d’anni prima che don Gius lasciasse questa terra, in cui parole che mi attanagliavano da anni mi apparvero finalmente limpide e inconfutate. Era il primo capitolo di Giovanni – da sempre croce e delizia dei razionalisti – e poi Pietro che nel sesto dice al Cristo “noi non comprendiamo quello che dici, ma se andiamo via da te, dove andiamo? Tu solo hai parole che spiegano la vita”. Devo a don Gius quella notte finalmente di luce, tutto quel che ne è venuto e ne verrà è solo figlio della mia imperfezione. Ma è don Gius, che con le sue parole ha dato la spallata definitiva – definitiva proprio perché logica, oltre che amorosa – alla torre eburnea della mia fallacia. Credo che siamo in tanti, a dovergli questo e molto, molto altro.