“L’ignoranza è forza” recitava uno slogan del “SocIng” il terribile partito capeggiato dal “Grande Fratello” (quello vero), descritto da George Orwell nel suo più celebre e cupo romanzo. Una realtà “distopica”, quella dipinta dall’intellettuale inglese, che minacciava l’umanità in quanto tale riducendo gli individui o a mere macchine non pensanti agli ordini del partito o a ribelli da riconvertire, mediante un tremendo lavaggio del cervello, e in seguito “vaporizzare”. Sarebbe alquanto pessimista sostenere che le previsioni di Orwell si siano avverate. Ciononostante il valore della sua letteratura rimane intatto, soprattutto se paragoniamo molti dei suoi giudizi circa la deriva che avrebbe preso l’umanità di fronte al potere rispetto alla realtà attuale. Alcune contemporanee forme di “non pensiero” e di massificazione sembrano infatti perfettamente in linea con altrettanti fenomeni presenti nella società orwelliana. Forme di regressione da cui non si può escludere che corrispettivi centri di potere traggano vantaggio. Ne abbiamo parlato con la professoressa Vita Fortunati, docente di letteratura angloamericana presso l’Università di Bologna e coautrice del libro “Perfezione e Finitudine”, uno studio sulla storia delle utopie



 

George Orwell fu volontario nelle brigate internazionali che combatterono in Spagna contro Franco a fianco dell’esercito repubblicano. La sua visione socialista però ad un certo punto cambiò, portandolo a scrivere libri critici come “La fattoria degli animali” e, ben più tragico, il celebre “1984”. Che cosa vide lo scrittore per aver cambiato così radicalmente le proprie idee? 



In realtà Orwell si è sempre definito una sorta di “militante non ortodosso”. Nonostante avesse creduto, e in un certo senso anche dopo l’esperienza della guerra continuasse a credere molto nel socialismo, era una personalità che godeva di una propria e forte indipendenza di pensiero. Era sì un intellettuale militante, ma non voleva essere etichettato.

Certamente poi l’esperienza della guerra di Spagna è risultata determinante per capire ciò che stava accadendo a livello europeo e per comprendere anche le strategie che i vari regimi totalitari dell’epoca esercitavano per accattivarsi la massa popolare. Mi sembra che uno dei discorsi più interessanti che Orwell introduce in 1984, un libro che va senz’altro letto nel contesto storico, riguarda l’analisi molto acuta sul potere dei media. Questo discorso attraversa in maniera capillare il suo testo, tant’è che molti semiologi, tra cui anche Umberto Eco, hanno messo in evidenza proprio il valore dell’opera orwelliana nella descrizione dell’uso che i sistemi totalitari fanno dei media. E lo stesso vale anche per l’utilizzo della pubblicità, degli slogan politici, la cui martellante presenza direi che rende 1984 un testo che ci dice molto anche oggi sotto questo aspetto.



La letteratura utopica ha origini remote. Oltre alle opere di Tommaso Moro e Campanella, che in un certo senso ne “ufficializzarono” l’esistenza letteraria, si può pensare a “La Repubblica” di Platone o al mito di Atlantide. Come mai l’uomo ne è così attratto?

Questa è una bella domanda alla quale è però difficile trovare una risposta esaustiva. Un mio collega belga ed io abbiamo pubblicato poco tempo fa in Francia, per la Champion Edizioni, un volume intitolato Storia Transnazionale dell’Utopia e dell’Utopismo, dove formuliamo un’ipotesi a seguito di alcune osservazioni.

Se si studia la tradizione letteraria utopica attraverso le varie nazioni europee, ma anche extraeuropee, si può notare una vasta e diffusa presenza dell’utopia e dell’utopismo. La prima intesa come genere letterario, il secondo come storia delle idee. Questo mette in luce che tale tendenza a pensare mondi alternativi al presente è qualcosa di ancestrale nell’animo umano.

Quindi l’utopia rappresenta una sorta di archetipo o di mito radicato nell’animo umano?

Sì, l’utopia è a tutti gli effetti una specie di mito. Anzi l’utopia affonda le radici nel mito ed è, in fin dei conti, un prodotto “laicizzato” di questo.

Per noi occidentali il concetto di utopia è collocato fra due poli. Da una parte affonda le proprie radici nei miti del mondo classico, dall’altra è protende verso il senso, di matrice giudaico cristiana, del compiersi e del rivelarsi di una società perfetta. Quindi mito ed escatologia. Si pensi alla Città Celeste descritta nell’Apocalisse. 

Con Tommaso Moro si dà il via alla laicizzazione dell’utopia, concependola esclusivamente come prodotto realizzato soltanto dagli uomini, senza intervento divino. Questo è il punto cruciale, l’elemento che distingue l’utopia dal mito o dalla dimensione escatologica.

Alcuni elementi dell’opera di Orwell paiono di inquietante attualità. Prendendo ad esempio una notizia di non molto tempo fa, che riportava l’intenzione in Francia di abolire ufficialmente alcune complicate forme di scrittura e di sintassi, non può non venire alla mente la famigerata “neolingua” descritta nel romanzo come unico e ultrasemplificato modo di esprimersi imposto dal partito per impedire sempre più un pensiero complesso da parte degli adepti. Vede delle analogie?

È una strategia che consiste nel disambiguare la lingua. In Inghilterra c’è l’annosa idea del “basic english”, se vogliamo aggiungere un esempio. È la genialità orwelliana, la parte più fertile e creativa del libro ed è certamente un fenomeno profetizzato, con un’incredibile intuizione, che noi, purtroppo, stiamo vedendo in atto.

Di fatto, forse adesso un po’ di meno, ma fino a poco tempo fa, se si inviava un articolo o un saggio presso un editore inglese questi tendeva a semplificare la lingua, a tagliare le perifrasi e a evitare le subordinate. Il pensiero complesso ed espresso nel linguaggio andava evitato a tutti i costi.

Anche in ambito pubblicitario, oggi come oggi, il messaggio deve essere estremamente chiaro, deve “passare”.

Questo tipo di atteggiamento è assolutamente funzionale alla massificazione. L’uso del congiuntivo, ad esempio, è sì più difficile da imparare, ma arricchisce l’io e lo rende capace di esprimersi al meglio. La massificazione vuole impedire questo. E la lingua ne è lo strumento principale.

Un altro aspetto evidenziato in Orwell è l’abolizione della storia. Il passato non esiste più e la memoria è impedita. Questo fenomeno si è verificato pressoché in ogni autentico regime totalitario, per quale motivo?

Vaporizzazione della storia. È un altro discorso importantissimo nel testo di Orwell. I regimi totalitari hanno in genere riscritto la storia con la pretesa di fondare un nuovo inizio, di ricominciare il mondo secondo il loro personale ordine e la loro parziale visione. “Vaporizzare”, il verbo che utilizza George Orwell, è un termine ricco e pregno di significato. Discorso molto doloroso dei regimi totalitari.

Di fronte a un simile rischio l’antidoto può venire rappresentato da un recupero intelligente della tradizione?

Personalmente credo che recuperare la tradizione sia un’azione importante a patto però che questa venga sempre messa in discussione. Mi spiego, non contestata, ma posta in dialogo con il presente. La memoria collettiva degli uomini è sempre processuale, in movimento. Non parlo di revisionismi storici forzati, ma della necessità che la tradizione sia sempre negoziata con il presente. Difatti ha un senso se viene riattivata in funzione del momento attuale o con un progetto nei confronti del futuro. La tradizione va quindi certo mantenuta, ma mantenuta viva. Altrimenti si corre il rischio opposto, con un esito simile a quello del totalitarismo: il rispetto indiscutibile della legge in sé e per sé, il quale, se non è agganciato a una circostanza reale perde di significato e si cristallizza. Un risultato per certi versi analogo a un clima totalitario.  

Al di là delle analogie, più o meno verificabili, fra il mondo di Orwell e il nostro, esiste o avrebbe ancora senso una letteratura utopistica oggi?

I testi antiutopici di Orwell e di Huxley sono stati quelli che hanno messo in crisi il progetto di utopia totalitaria, intesa come volontà di razionalizzare tutti gli aspetti della realtà.

Dal punto di vista dell’eredità letteraria, dagli anni ’80, c’è stata in Inghilterra, soprattutto da parte delle scrittrici, un tipo di letteratura detta “distopia critica” all’interno della quale si parte dall’analisi dei mali della società contemporanea prospettando possibili mondi alternativi. Non si scrivono più utopie nel senso canonico però il genere è rimasto in un certo senso vivo attraverso la scrittura di tali opere. Questo filone ha portato avanti per lo più i discorsi pacifisti, ecologisti, e via dicendo: si pensi ad esempio a uno scrittore come Kim Stanley Robinson, autore di “Antartica”.