Oggi, le scelte eutanasiche sono la ragionevole conseguenza di quelle eugenetiche. Pochi amano ricordare che pratiche eugenetiche analoghe a quelle attuate dai nazisti nei confronti delle persone disabili furono adottate in paesi di specchiata tradizione democratica. Tanto per fare un esempio, in Svezia, tra il 1935 e il 1975, medici di tendenza liberale e umanista diedero attuazione ad un programma nazionale di sterilizzazione che coinvolse 62.000 persone, con interventi non sempre volontari. Sono analogie urticanti, non a caso praticate nei confronti degli stessi soggetti: le persone disabili. Un esponente di Amnesty International, quasi vent’anni fa ebbe a dire che se la società riconosceva la Sindrome di Down come una ragione accettabile per abortire un feto, ciò avrebbe reso più difficile preservare l’uguale dignità anche per coloro che erano già nati ed erano affetti da questa malattia. Si potrebbe argomentare – concludeva l’attivista – che la loro dignità umana, se non i loro diritti umani, sono ridotti. Per questo motivo le organizzazioni delle persone disabili guardano con preoccupazione a certe sentenze emesse dai tribunali italiani.
Ma come la mettiamo quando il giudizio sulle condizioni che rendono degna la vita viene dalla coscienza dalla libera autodeterminazione dell’individuo, chiedendo che la sua volontà si trasformi in un diritto? Non è vero, obietta la filosofa De Monticelli, che la vita è l’unica cosa sacra che c’è; perché, argomenta, la si può sacrificare in nome di un ideale o per il bene di un’altra persona.
Ma proprio su questo punto si palesa, a mio avviso, un problema. Molti studi sociologici dimostrano che un atteggiamento favorevole nei confronti dell’eutanasia non coincide necessariamente con il desiderio di morire. Quando i pazienti intervistati si esprimono a favore dell’eutanasia lo fanno immaginando una ipotetica situazione futura, in genere associata con il timore per la sofferenza futura e non per quella attuale.
Inoltre, una ricerca realizzata intervistando malati terminali oncologici ha messo in evidenza che l’espressione suprema della libertà individuale (il diritto di morire) fornisce una rappresentazione molto semplificata della scelta individuale. La decisione di porre termine alla propria esistenza (in gergo tecnico definita Do not resuscitate), è condizionata da un complesso insieme di relazioni: di tipo familiare, sociale e strutturale. La persona umana, quella che vive, soffre e pensa, si forma all’interno di questo contesto di relazioni. Negarlo conduce ad una visione dell’uomo dotato di una libertà ontologicamente onnipotente (di qui il tragico parallelo con il nazismo).
Con ciò non si vuol negare che l’uomo è strutturalmente definito dalla sua libertà e perciò che egli può sempre trascendere il contesto sociale con suo gesto di libertà orientato al valore che ritiene buono per sé. Ma qual è il bene di un embrione su cui è stata diagnosticata la sindrome di Down oppure di una persona in “stato vegetativo”? La risposta è affidata alla nostra libertà, alla nostra disponibilità a instaurare o mantenere con essa delle relazioni. Accettando che queste relazioni siano prodotte e riprodotte, “umanizzando” un bambino con sindrome Down o accudendo una persona gravemente disabile, ci scopriamo noi stessi più umani.
Lo sterminio dei disabili prima ancora che nel chiuso dei cenacoli scientifici, oppure nelle stanze del potere, inizia nel chiaroscuro della nostra coscienza, quando decidiamo se il limite che segna l’esistenza della persona disabile sia anche il nostro stesso limite. La società ha iniziato ad essere più umana rinunciando alla soppressione delle persone con disabilità, quando ha saputo scorgere nel limite non soltanto un ostacolo ma una sollecitazione ad accorgersi di un’alterità preziosa. Come documenta l’esperienza di Mounier, uno dei più grandi pensatori francesi del XX secolo, nella casa del quale la figlia Françoise, gravemente cerebrolesa, occupava il posto d’onore a tavola quando ricevevano le visite dei più influenti intellettuali dell’epoca. Un’esperienza che è meno eroica e più comune di quanto, per convenienza, saremmo portati a credere. Se c’è un’evidenza che accomuna i normodotati e le persone con disabilità, è che, ora, in entrambi i casi, il nostro essere ci è dato. Per questo la nostra libertà può accettarlo o rifiutarlo: perché c’è.