Mentre Milano si appresta a rivivere i fasti dell’esposizione universale, che nel 1906 contribuì a recarle la fisionomia internazionale di cui tutt’ora gode, a Palazzo Reale si celebra il centenario del movimento futurista, il cui inizio è classicamente indicato dalla stesura del celebre “Manifesto” di Marinetti. Philippe Daverio descrive a ilsussidiario.net i tratti salienti di uno dei principali movimenti d’avanguardia nell’arte italiana del ‘900
Quali sono le premesse che portarono alla nascita del futurismo?
Le premesse erano quelle della terza generazione postunitaria.
Mi spiego. La prima generazione è quella che realizzò l’unità del nostro Paese. I loro figli, ossia la seconda generazione, cominciarono a manifestare il proprio malumore di fronte alla delusione di un progetto, quello dell’Italia, che si immaginavano diverso rispetto poi a come si palesò nella realtà. Questo malcontento fu alla base, nella storia dell’arte, dello sviluppo del primo movimento di protesta, davvero di respiro “europeo”, che assunse una connotazione “proto dadaista”, ossia la “scapigliatura”. Fu un movimento parecchio sentito a livello popolare. Basti pensare che le prime mostre della scapigliatura nascevano da una sorta di meccanismo spontaneo. Gli scapigliati affittavano un posto nel centro di una città italiana arredandolo alla loro “maniera”, molto alla “spera in Dio”. Fatto sta che a vedere queste mostre venivano folle per allora oceaniche, nell’ordine delle 40.000 per esposizione. Questa forma d’arte di protesta fu dunque il primo “salto” verso la concezione futurista.
Cosa diede ulteriore spinta?
A questo proposito mi piace tirare in ballo un testo di Marinetti intitolato Les dieux s’en vont, D’Annunzio reste, “gli dei se ne vanno, rimane D’Annunzio”. È un testo che nessuno cita quasi mai in cui l’artista scrive in parte motivato dalla recente scomparsa di Verdi e di Carducci e in parte contro il clima culturale allora dominante il cui più famose esponente è Gabriele D’Annunzio. Per quest’ultimo Marinetti provava un’antipatia viscerale, sebbene dal punto di vista comportamentale i due fossero quasi analoghi. Ebbene questo testo ben manifesta i canoni della ribellione futurista, la ribellione della terza generazione. Una rivolta che sorge dalla grande trasformazione sociale e tensione fra le classi che si generò, soprattutto nell’area milanese, con la crescita delle prime industrie. Fino ad allora noi italiani eravamo attardati rispetto all’Europa e cominciammo con velocità a recuperare questo ritardo, con la conseguente confusione sociale che ebbe il tragico esito nell’episodio delle cannonate di Bava Beccaris.
Fu quindi un movimento in parte anche politico?
Non proprio, se non nella rottura coi canoni politici dei tempi. L’Italia di allora era un paese fortemente politicizzato, nacque il partito socialista e da allora diventammo i primi esportatori di anarchici nel mondo. Carnot venne assassinato da un italiano proprio come il nostro re Umberto I.
All’interno dunque del subbuglio generale prima accennato, Marinetti prende le distanze sia dai socialisti, giudicandoli “mosci” e interessati solo a mangiare, sia dai borghesi che considera alla stregua di rimbambiti. In questo rifiuto e voglia di cambiare sta la connessione del movimento futurista con le trasformazioni della società italiana che allora è la più veloce in termini di evoluzione. In qualche modo si diffonde la certezza che il Paese stia per prendere il volo.
Questa è una situazione assolutamente fondamentale sia per capire la fenomenologia futurista, come movimento di slancio, sia poi la folle voglia di partecipare alla prima guerra mondiale.
Voglia che poi si mutò in un radicale ripensamento nei confronti della guerra
Questo è vero a seconda dei casi. Per esempio l’idealizzazione della guerra in Marinetti rimarrà costante per tutta la sua vita. Egli infatti si arruolò a 65 anni per combattere in Russia, tornò ed aderì alla RSI. Altri invece abbandonarono il militarismo, altri ancora, come Sant’Elia, morirono invece in guerra.
Ma prima di dire “amo la guerra” il futurista dice “noi amiamo il militarismo”. Se io oggi dicessi una frase di questo tipo sarei preso per matto o paragonato agli attuali generali sudamericani. Per la cultura politica di allora amare il militarismo voleva dire disprezzare le tranquille e mosce virtù della borghesia. A quell’epoca la parola “militarismo” non era lontana dalla parola “militanza”.
Quale eredità lasciò nell’arte il futurismo, se ne ha lasciate?
Sicuramente ne ha lasciate. Quel modo di concepire l’avanguardia, sebbene non sia esclusivo del nostro Paese, si diffonde in tutta Europa. In un tempo brevissimo si sviluppa a Zurigo il movimento Dada che è radicalmente pacifista. Si svilupperanno poi tutte le passioni per le avanguardie, il Dada diviene parigino e diventa un movimento ancora una volta oppositivo. Il surrealismo ne è in parte figlio, l’avanguardia diventa stabile, fino ad arrivare al situazionismo del dopoguerra. Tutti questi movimenti sono in un certo modo discendenti dell’area futurista. Ora in Italia è rimasto ben poco, sembriamo tutti un po’ addormentati.
A proposito, lei afferma, in un articolo scritto per il Corriere della Sera, che i futuristi godevano di una “capacità di protesta che oggi guardiamo con autentica nostalgia”? In che senso?
Si protesta sempre per un positivo, perché si pensa che il mondo possa migliorare. C’è oggi una vastissima quota della popolazione in Italia la quale è invece convinta che il mondo non possa che peggiorare in quanto il proprio mondo è già peggiorato. I creativi, gli inventivi, i ricercatori, gli intellettuali non sono pochi in Italia. A questi si aggiungono le masse dei giovani. Tutte queste categorie si trovano in una situazione per moltissimi aspetti analoga a quella in cui si trovavano i futuristi. La differenza, a mio avviso grave, è l’assoluta mancanza di una direzione dove incanalare la propria grinta e le proprie prospettive di miglioramento. Non dico che i futuristi abbiano avuto tutte le ragioni, ma sicuramente si avverte oggi una tendenza all’abbandono disperato di quel pensiero positivo per lasciare posto a una protesta fine a se stessa e sterile.
Che cosa intende invece con il rischio di cadere nella “retorica delle celebrazioni”?
Semplicemente si corre il rischio che ognuno affermi: “il futurismo è roba mia”. Sia che venga il vecchio nostalgico fascista di Salò a rivendicarlo sia invece che lo faccia qualche progressista modernista, la posizione è letteralmente errata. Bisogna avere invece il coraggio di approcciarsi alle cose basandosi sui termini che sono loro propri, senza impalcature ideologiche.