Da dove nasce l’interesse per il corpo come oggetto di studio scientifico e, di conseguenza, la visione del malato come paziente suscettibile di terapia? Per il professor Giorgio Cosmacini non ci sono dubbi: dalla cultura occidentale. Senza nulla togliere alle altre realtà culturali, che hanno a loro volta sviluppato differenti percorsi in merito alla salute, da anni i libri di questo medico e filosofo, pubblicati dai maggiori editori italiani, dimostrano come l’approccio sanitario alla persona, modernamente inteso e concepito al giorno d’oggi pressoché in tutto il mondo, trovi la sua origine dal connubio fra razionalità greco romana e religiosità medievale
Che cosa differenzia lo sviluppo della medicina occidentale rispetto a quello di altre culture?
Per comprendere appieno questa differenza bisogna fare riferimento alle basi razionali della cultura occidentale. La medicina occidentale è in primo luogo figlia della cultura greca e latina, sebbene abbia ricevuto apporti anche da altre parti. Nel medioevo, contrariamente a quanto comunemente si pensa, si assiste a uno sviluppo in termini laici di questa scienza.
Il medioevo è però l’epoca in cui la dimensione religiosa e spirituale sembra permeare ogni aspetto della realtà. In che senso dunque parla di “termini laici”?
Significa che fu un’epoca in cui si mantenne certamente questo tipo di religiosità intrinseca in ogni sfaccettatura del quotidiano, ma nella quale proprio questo humus culturale consentì a fare piazza pulita di tutti i condizionamenti di tipo soprannaturale da cui l’antichità era caratterizzata. La natura, anche quella umana, viene considerata “creatura” e quindi in un certo senso “desacralizzata” dai risvolti magici e religiosi di matrice pagana. Ciò permise di sottometterne ogni aspetto entro il dominio della ragione. Una volta che la natura diviene oggetto di studio, la cultura erede del razionalismo antico, come era il nostro medioevo, comincia a interpretare e a ricercare le leggi di tutti i fenomeni naturali, anche di quelli medico-naturali e ad organizzarli secondo una vera e propria logica scientifica.
Che poi, anche nel medioevo, si sia dato ampio spazio a suggestioni di vario genere è un altro conto, però l’indirizzo culturale fondamentale della medicina occidentale ha questi presupposti: fondazione della razionalità e liberazione dal sacro “panteistico” senza, per questo, venire meno alla pratica religiosa.
Anche la razionalità nell’indagine medica dunque cambiò?
Sì. In principio il metodo razionale ereditato dagli antichi e reinterpretato nel primo medioevo si basava per lo più sulla observatio, era quindi un metodo fortemente empirico. Più tardi, con l’avvento dell’umanesimo e del rinascimento, nei secoli XVI e XVII, si passò a una medicina maggiormente basata sulla sperimentazione. Non fu l’abbandono della ragione deduttiva, piuttosto si creò un solco culturale in cui si incanalarono i sensi e la ragione. Due aspetti dell’esperienza che embricandosi vicendevolmente iniziarono la fondazione di un sapere improntato sulla speculazione tanto quanto sulla sperimentazione, sull’ipotesi verificabile.
Come si diventava medici nel medioevo?
Innanzitutto il sapere medico medievale è un sapere in un primo tempo “magistrale”, nel senso che nasce dai magistri. Questa era la situazione prima che nascessero le università e che quindi la medicina diventasse patrimonio dei doctores, dei dotti. La scienza medica dunque è inizialmente un’arte, un artigianato di cui sono portavoce questi maestri. La famosissima Scuola Salernitana è il più illustre esempio di questa concezione. Fu dallo sviluppo di questo tipo di scuole artigianali che prese le mosse la concezione accademica della scienza medica. L’arte cominciò sempre di più a farsi scienza. Iniziarono le prime discussioni sul rapporto fra testi sacri e autori greci e latini. Un trapasso culturale difficilissimo e problematico che vide nel medioevo la culla del cambiamento della mentalità scientifica.
Lei ha prima descritto il processo di desacralizzazione del corpo rispetto all’epoca precedente il medioevo. Quali furono i primi concreti risvolti e progressi in ambito scientifico?
Il corpo morto da “sacro” divenne “cadavere”. Se già con Ippocrate il “morbo sacro” divenne l’epilessia, col medioevo il corpo dei morti si tramutò in oggetto di studio dell’anatomia. Molti pensano che lo studio anatomico sia appannaggio del rinascimento, scordandosi che la prima dissezione a scopi scientifici avvenne nel 1315 all’università di Bologna.
Ribadisco, col cambiamento del concetto di religiosità fu possibile impostare un nuovo criterio di indagine. Il dolore, in ambito scientifico, venne desacralizzato, così come il sangue e quant’altro. Ma sia l’uno che l’altro mantennero il loro significato nella dimensione religiosa. Le due concezioni riuscivano a coesistere e compenetrarsi pacificamente, senza che l’una fosse d’ostacolo all’altra.
Lei ha scritto anche un volume dedicato all’ospedale Ca’Granda di Milano. Fu un luogo di cura sorto proprio al crepuscolo del medioevo che rappresentò per secoli un’eccellenza di sanità. È anche questo merito dell’impostazione medievale?
Certo. La Ca’ Granda fu un esempio straordinario di organizzazione finalizzata alla cura della persona. Inoltre da quelle mura uscirono fra i più grandi chirurghi e medici che la storia della medicina ricordi. Nei secoli successivi avvenne letteralmente di tutto. Basti pensare che alla fine del 1700, nel pieno illuminismo, per curare i malati di cancro si facevano mangiar loro delle lucertole vive. L’idea era che le potenzialità rigenerative della coda delle lucertole fosse in grado di rigenerare a sua volta i tessuti umani. Questo esempio mostra come tutta la storia della medicina, anche quella che crediamo più “illuminata” abbia sempre dovuto fare i conti con ingenuità ideologiche sconcertanti. Non fu dunque il medioevo, come spesso si crede, l’epoca buia della medicina, anzi. Tutto il percorso della scienza medica è stato e continua ad essere contraddittorio e pieno di errori.