Che il nostro mondo sia definito dalla «secolarizzazione», cioè dalla «emancipazione dalla simbiosi con il fatto cristiano» sembra ormai un luogo comune. Ma cosa significa esattamente secolarizzazione? Lo chiediamo a Giuseppe Reguzzoni, la cui tesi di dottorato all’Università Cattolica di Milano si intitola proprio Modernità e secolarizzazione. Aspetti e protagonisti del dibattito storico-interpretativo nell’area culturale tedesca del secondo Novecento.



Quella di secolarizzazione è una delle categorie più complesse e più equivoche oggi in uso per definire il rapporto tra il Sacro e la società. Nell’uso comune il termine ha una valenza metaforica. Del resto il suo primo significato, mutuato dalla storia del diritto canonico, indica il passaggio allo stato laicale di un chierico. Quindi, la secolarizzazione ha a che fare con una storia vissuta, ma non sempre o non pienamente riconosciuta, con qualcosa di cui si dovrebbe rendere conto, ma che si cerca invece di rimuovere. Su questo hanno ragione Donoso Cortés e Carl Schmitt: tutti i moderni concetti della dottrina dello stato sono concetti teologici secolarizzati, rispetto ai quali, diceva Guardini, l’età moderna si pone con slealtà, non ammettendo la propria origine, rifiutandosi di fare i conti con essa. Di per sé la secolarizzazione è un processo storico e sociale, che sarebbe opportuno distinguere dal secolarismo, che è la lotta aperta e ideologica contro il Cristianesimo portata avanti da partiti, lobbies o gruppi di potere.



Nella sua ricerca lei sottolinea che la secolarizzazione ha una valenza culturale ed una seconda istituzionale. Cosa si intende esattamente?

Sul piano tecnico, nella storia delle istituzioni, la parola secolarizzazione per lungo tempo ha indicato principalmente il processo di soppressione e confisca dei beni ecclesiastici da parte delle istituzioni statali. In questo senso, già prima della Riforma protestante c’erano state “secolarizzazioni” di monasteri o di proprietà ecclesiastiche, senza che questo mettesse in dubbio l’esistenza della “cristianità”, cioè di una società europea di cui il Cristianesimo era il sostrato comune; ma è soprattutto dopo la Riforma e, in seguito, in epoca illuministica, che le “secolarizzazioni” divengono una prassi quasi comune, con la punta massima delle soppressioni napoleoniche e che, soprattutto, acquistano il significato di lotta contro l’identità cristiana dell’Europa, venendo in gran parte a coincidere con ciò che comunemente si chiama “secolarismo”.



Dal punto di vista culturale, anche prescindendo dalle forme più radicali di questo fenomeno, la secolarizzazione si presenta come una neutralizzazione, il tentativo di rendere inoffensivo e accettabile per tutti qualcosa che prima era sentito come di parte e conflittuale. Rispetto a una situazione di scontro, si pensi ai cosiddetti conflitti di religione, si va a cercare qualcosa che sia “neutro”, né da una parte né dall’altra, su cui si possa costruire la convivenza civile. La storia istituzionale dello stato moderno è in gran parte storia di neutralizzazione e secolarizzazione. Solo che, sul piano culturale, di neutralizzazione in neutralizzazione si arriva al predominio assoluto della tecnica e, soprattutto all’incapacità di scoprire dei valori comuni condivisi e aggreganti, salvo quella poltiglia incolore utile ai potenti di turno che è il “politicamente corretto”.

Il dibattito sul «ruolo sociale» della religione cristiana è oggi di estrema attualità. In base alla sua ricerca come lo valuta?

Sul piano storico e sociale la “neutralizzazione” è un fenomeno necessariamente parziale e a tratti anche contraddittorio, si pensi anche solo al ruolo simbolico del calendario cristiano e alla percezione del tempo che esso implica. A furia di “neutralizzare”, non ci si trova in mano più nulla. Oltre al livello della presenza e della testimonianza personale e comunitaria, in un contesto di laicità positiva il “ruolo sociale” della religione cristiana consiste nel generare valori “pre-politici”, nel senso di valori intorno a cui la “polis”, la comunità sociale possa riconoscersi. Credo che proprio qui stia il senso ultimo e più vero della “laicità positiva” che emerge, per esempio, dal dialogo tra Habermas e l’allora card. Ratzinger. Gran parte delle battaglie etiche portate avanti dalle chiese e comunità cristiane in Europa in realtà sono battaglie per valori semplicemente umani.

Un capitolo del suo studio è dedicato a Ernst-Wolfgang Böckenförde, che è stato citato anche da Benedetto XVI. Potrebbe spiegare la posizione di questo autore?

Ernst- Wolfgang Böckenförde non è solo uno storico del diritto; come membro della corte costituzionale tedesca si è occupato delle numerose contraddizioni insite nella nozione di stato “neutrale” (come la questione del velo islamico). La sua è una posizione di “laicità positiva”, che prende le mosse dalla tesi per cui lo stato moderno, secolarizzato e liberale, vive di presupposti che non è in grado di garantire. Si tratta di una posizione fortemente critica, che muove da domande drammatiche: di che cosa vive lo stato? Come difendere la nostra libertà dall’uso improprio di chi vuole usare le nostre leggi democratiche per minare la democrazia? In che senso la democrazia, la libertà, sono “valori”?

L’altro aspetto ha a che fare con quello che prima abbiamo chiamato il significato istituzionale della secolarizzazione, dunque con la domanda circa la permanenza di un residuo cristiano nella definizione delle istituzioni su cui tale stato si fonda. Questa riflessione ha portato Böckenförde a firmare il manifesto dei giuristi tedeschi per l’inserimento delle radici cristiane nel preambolo della costituzione europea, con il conseguente abbandono della tesi della neutralità assoluta.