Quali sono, a suo avviso, le principali cause della difficile integrazione dei rumeni in Italia?

Non credo sia corretto parlare di “difficile integrazione”. È significativo il caso di Romeni che, dopo aver conosciuto situazioni di vita dura in Italia, avendo trovato sistemazione in altri Paesi europei, intervistati, hanno dichiarato che l’ambiente in cui meglio si erano sentiti era comunque l’Italia. Nei mesi scorsi ho incontrato un imprenditore romeno, stabilitosi e operante da tempo nel nostro Paese, che pubblicamente ha testimoniato di non essersi mai sentito discriminato per la sua origine. Quando si parla di cittadini romeni presenti in Italia, non si può non considerare il fatto che tra loro vi sono appartenenti al popolo romeno e appartenenti ai gruppi Rom (ossia, Zigani; in lingua italiana: Zingari). Il problema dell’integrazione e della marginalità nei due casi si pone ovviamente in termini diversi. Se già esistono problemi di integrazione e di tutela nei confronti degli Zingari italiani, è oltremodo comprensibile che tali problemi si presentino in forma esasperata per gli Zingari non italiani, tra i quali non pochi sono i romeni. Ma in questo caso la questione non è legata alla cittadinanza (romena), ma alle consuetudini e alle forme di vita (zingaresche), sicché non è questione specifica ‘romena’. Merita comunque ricordare che nel ‘Vecchio Regno’, ossia nei territori romeni rimasti vassalli del Sultano – almeno formalmente – fino al 1878, gli Zingari erano schiavi, con relativo mercato, e sono stati emancipati nel 1855. Vi è dunque in questo gruppo etnico una sedimentazione di esperienze storiche, che ne rende il processo d’integrazione oltremodo complesso. Discorso profondamente diverso s’impone per quanti, appartenenti al popolo romeno, sono oggi presenti in Italia. E non sono soltanto cittadini romeni, ma anche Romeni con cittadinanza ucraina e – in misura assai più ridotta – moldovena. Tra costoro vi sono anche persone con elevati titoli di studio e ottima qualificazione professionale; vi sono validi studiosi perfettamente inseriti in organismi di ricerca, vi sono imprenditori e, naturalmente, come tutti sappiamo, ottimi manovali, infermiere e collaboratrici domestiche, talvolta con titoli di studio di alto livello. Nel contesto di una migrazione selvaggia, quale si è avuta, vi sono anche disperati, con precedenti penali e condanne nel loro Paese, che – venendo clandestinamente in Italia – vi portano la loro disperazione e la loro marginalità. Per renderci conto del fenomeno si pensi alla migrazione dalla Sicilia negli Stati Uniti all’inizio del Novecento e all’esportazione della delinquenza organizzata, che allora si determinò. Fu quello certamente un fenomeno legato all’immigrazione italiana, ma non sarebbe legittimo identificare l’Italia con quel fenomeno. L’equiparazione ‘Italiano-mafioso’ non è soltanto sgradevole a udirsi, soprattutto non è, e non era, rispondente alla realtà.



Non conosciamo quasi nulla della cultura romena, che pure anche linguisticamente è vicina alla nostra. Come mai? Come valuta la situazione culturale di quel paese, che ha vissuto un regime comunista particolarmente feroce ed è infine approdato nell’Unione Europea?

Sembra che la moltiplicazione smisurata degli strumenti di comunicazione paradossalmente ci renda in ugual misura ignoranti delle realtà con cui veniamo in contatto. L’intensità degli scambi culturali che si ebbe tra i due Paesi nel periodo interbellico è ben attestata dallo splendido edificio dell’Accademia di Romania in Roma a Valle Giulia. Nei manuali di Storia lo spazio romeno è peraltro quasi ignorato: colpevolmente, trattandosi di uno spazio cerniera, dove si è realizzato un interessantissimo interscambio tra le grandi tradizioni culturali, religiose, istituzionali dell’Europa. Questa ricca vicenda storica è ben espressa dall’Università di Cluj, in Transilvania. Le sue radici affondano nel Collegio gesuitico creato nel 1581, che nel secolo XVII divenne una prestigiosa Scuola superiore protestante (unitariana), nella seconda metà del Settecento conobbe la propria rifondazione quale Università tedesca e, un secolo più tardi, nel quadro del Regno d’Ungheria, fu trasformata in Università ungherese, per divenire infine, dopo la formazione del Regno della Grande Romania nel 1918, importante ateneo del sistema universitario romeno. Tale Università ha attualmente tre linee d’insegnamento: romena, ungherese e tedesca; ha quattro Facoltà teologiche: Ortodossa, Greco-Cattolica, Riformata, Romano-Cattolica; ha una Facoltà di Economia caratterizzata da linee di formazione specializzate per le diverse aree economiche europee, con corsi interamente in lingua inglese, tedesca, francese (è in fase progettuale anche una linea italiana); ha istituito con la collaborazione di Università dell’Unione Europea una dinamica Facoltà di Studi Europei ed è impegnata in una fitta rete di scambi internazionali. Chi visiti quell’Università non può sottrarsi all’impressione di un Paese che ha seriamente investito sulla formazione e sulla cultura, e che sta preparando con impegno il suo futuro, dopo la devastazione e il più che quarantennale isolamento imposto dal regime ideocratico e totalitario comunista. Siffatta impressione trova conferma nelle borse di studio che annualmente il Governo romeno pone a disposizione di propri giovani laureati in discipline umanistiche per soggiorni biennali di studio e di specializzazione in Italia, presso l’Accademia di Romania in Roma e a Venezia presso l’Istituto Romeno di cultura e ricerca umanistica.



Qual è la situazione religiosa della Romania?

La storia religiosa dello spazio romeno è la più marcatamente europea dell’intero continente! Ciò che altrove è polarizzazione dialettica (Ortodossia/Protestantesimo; Atene/Ginevra) qui, e segnatamente in Transilvania, è compresenza storica e complementarietà vissuta: nella stessa località chiesa protestante e chiesa ortodossa si trovano l’una presso l’altra. Ma anche in rapporto alla tradizione ortodossa, non si deve dimenticare che questo popolo, che ha sempre parlato lingua (neo)latina, ha utilizzato per secoli quale lingua di culto e di cultura la lingua slavona, sostituita nel Sei-Settecento dal greco, soprattutto in Valacchia e Moldavia (presso le Corti, nelle sedi episcopali e nei grandi monasteri). In tal modo anche quella che nell’ambito ortodosso può considerarsi una polarizzazione non priva di tensioni tra Slavia ed Ellenismo romeo (ossia, tra Mosca e Costantinopoli) nello spazio romeno è divenuto patrimonio analogamente compartecipato e armonicamente metabolizzato. Inoltre nella Transilvania, se il popolo romeno era di tradizione ortodossa, le egemoni componenti ungheresi e tedesche (Sassoni), di tradizione cattolica, col secolo XVI divennero protestanti: luterani i Sassoni, riformati gli ungheresi, in notevole misura acquisiti nel Seicento alla Chiesa unitariana (antitrinitaria). Solo a partire dalla fine del Seicento, con l’inserimento del Principato nel sistema imperiale asburgico, fu possibile un parziale recupero delle popolazioni ungheresi alla fede cattolica. Quanto ai Romeni negli anni 1697-1701 la loro Chiesa, pur conservando la tradizione ecclesiastica ortodossa, si dichiarò Unita con Roma. L’inserimento alla metà del Settecento di missionari confessionali serbi provocò la frattura all’interno di tale Chiesa col formarsi di una comunità ortodossa ‘non unita’ divenuta rapidamente maggioritaria. All’avvento del regime comunista la Chiesa Unita (o greco-cattolica, secondo il lessico cancelleresco asburgico) era comunità ancora molto consistente (oltre 1.500.000 fedeli) e caratterizzava centri urbani, come la stessa Cluj. Il 1° Dicembre 1948 tale Chiesa è stata dichiarata non più esistente dal potere ateo: tutti i suoi vescovi e un gran numero di suoi preti e laici sono stati posti in carcere (dove molti hanno trovato la morte) e i suoi luoghi di culto sono stati dati alla Chiesa ortodossa. Questo ha voluto dire nei villaggi cancellare totalmente la Chiesa unita, nelle città determinare nelle chiese cattolico-romane ungheresi una frequentazione da parte di fedeli romeni uniti, che vi cercavano ospitalità per confermare la propria fedeltà alla comunione con Roma. Uno dei primi atti istituzionali della Romania libera, dopo la caduta del regime, è stata la restituzione della legittimità legale alla Chiesa Unita, cui peraltro la Chiesa ortodossa non ha voluto restituire gli edifici di culto a lei conferiti dal passato potere (con l’unica eccezione dell’Arcidiocesi di Timisoara, retta dal metropolita del Banato Nicolae Corneanu, che al riguardo ha offerto e sta offrendo una straordinaria, coraggiosa e sofferta testimonianza di fraternità cristiana). Mentre in tutto il Paese vengono resi agli antichi proprietari i beni confiscati dalla collettivizzazione comunista, un recente disegno di legge intende escludere da tale restituzione unicamente la Chiesa Unita, assegnando gli edifici di culto (e non solo) a lei appartenuti, non in base al titolo di proprietà originario, ma in base alla maggioranza numerica dei fedeli: sicché, dopo la decimazione prodotta dalla persecuzione, la Chiesa Unita sarebbe privata di ogni suo legittimo bene proprio perché decimata. La situazione, paradossale, non può non creare tensioni: assolutamente assurde in un tempo come l’attuale, in cui le Chiese hanno problemi fondamentali con cui confrontarsi e sui quali offrire una concorde testimonianza. Per arricchire ulteriormente il quadro religioso di questo spazio va altresì ricordato che, segnatamente in Moldavia, fin dall’inizio del secolo XV anche gli Armeni ebbero una propria sede episcopale e che nell’Ottocento qui si insediarono pure i vecchio ritualisti russi. In età moderna e fino all’ultima guerra grande rilievo ebbe anche la comunità ebraica. Dal punto di vista religioso, dunque, lo spazio romeno, confessionalmente a prevalenza ortodossa, si presenta quale spazio eminentemente europeo, ed anche per questo aspetto trova nella Unione Europea la sua collocazione più consona e il contesto nel quale far crescere i germi di ‘unità nella diversità’ in esso presenti: sono germi profondamente in sintonia con il principio ideale ispiratore dell’Unione (in varietate concordia), dall’Unione stessa additato quale criterio istituzionale ai propri popoli e offerto quale messaggio al mondo.