Le continue polemiche intorno a tutto ciò che il Papa dice, in qualunque circostanza pubblica, incominciano ad assumere un peso francamente preoccupante: anche le dichiarazioni intorno al problema dell’Aids (che altro non hanno fatto che confermare la posizione della Chiesa, a tutti nota) si rimettono dunque nel solco della situazione di aperta ostilità nei confronti del Pontefice già manifestatasi nelle scorse settimane intorno al problema della revoca della scomunica ai lefebvriani. Una situazione molto difficile, che ha però trovato il suo straordinario epilogo nella lettera del Papa ai vescovi.



Quel documento, secondo il vaticanista dell’Espresso Sandro Magister, rappresenta un unicum su cui è bene riflettere a lungo, per valutare la grande capacità dimostrata da Benedetto XVI di riportare al «centro» il tema della missione dei cristiani nel mondo.

Magister, il primo aspetto che ha colpito tutti è la straordinarietà di questa lettera: un documento veramente fuori dell’ordinario, che il direttore dell’Osservatore Romano non ha esitato ad accostare alle lettere di San Paolo.



Il documento ha in effetti una portata che è assolutamente fuori dall’usuale: tra i fatti del ’900 io non ricordo un atto paragonabile a questo. Una lettera rivolta a tutti i vescovi, nella quale si prendono di petto problemi reali, che vengono descritti per quello che sono e che senza mezzi termini vengono additati e chiamati per nome. Problemi che si sono sì verificati nell’ultimo tempo nella Chiesa, ma rispetto ai quali il Papa risale all’origine ultima. Oltre a questo, ci sono poi indicazioni di altissimo livello che fanno appunto paragonare lo stile di questa lettera alle lettere paoline o a quelle dei padri apostolici: anche quelle, infatti, si rivolgevano alle chiese, affrontavano esplicitamente problemi concreti, e contemporaneamente ricentravano il discorso sulle ragioni più alte dell’azione del cristiano nel mondo. Grande dottrina, grande teologia, e allo stesso tempo grande sensibilità alle questioni reali che la Chiesa sta affrontando.



Quali sono le radici dei conflitti su cui il Papa fa chiarezza?

L’avversione che il Papa denuncia nei confronti delle comunità lefebvriane – un’avversione che egli non esita a paragonare a quella che si ha nei confronti del lebbroso, dell’intoccabile, del paria – in realtà ha delle ragioni che risalgono a un problema aperto dal Concilio Vaticano II: il rapporto tra il Concilio e la tradizione della Chiesa. È su questo crinale che si sono provocate della spaccature dentro la Chiesa stessa. Una di queste spaccature è quella operata dai lefebvriani; ma è una spaccatura anche l’altro tipo di lettura estremistica, in base alla quale il Concilio viene visto come una rottura, come un nuovo cominciamento della Chiesa a prescindere dalla tradizione precedente. Il Papa mostra come la sua mano tesa alla comunità lefebvriana è esattamente finalizzata a portare la Chiesa intera a riflettere su questa continuità tra il Concilio e la grande Tradizione, ricomponendo queste fratture.

E in che modo, concretamente, il gesto del Papa favorisce questa ricomposizione?

Il Papa innanzitutto risveglia l’attenzione sulle vere ragioni che hanno portato a questa separazione, che sono dottrinali. E poi aggiunge: come possiamo noi nella Chiesa stare fermi di fronte a situazioni di questo genere, quando nel mondo intero c’è il pericolo supremo, vale a dire la scomparsa di Dio? Noi dobbiamo portare gli uomini a Dio: come possiamo, se non siamo noi per primi testimoni di amore tra noi? Questo è il grande balzo verso l’alto che il Papa compie, a partire da un disordine che sembrava confinato dentro i limiti delle cronache vaticanistiche.

Nella lettera non mancano però anche le ammissioni degli errori commessi. Alla luce di queste ammissioni, che insegnamento lascia tutta questa vicenda?

Naturalmente questo è un altro dei punti espliciti della lettera, in cui il Papa non minimizza in nulla quelle che sono state le clamorose disfunzioni. Tali errori, dice il Pontefice, sono stati di due tipi: di comunicazione e di governo. Dal punto di vista della comunicazione, il Papa fa capire benissimo che c’è stato l’errore clamoroso, addirittura tecnico, di non aver fatto ricorso agli strumenti ormai usuali per rintracciare con estrema facilità il profilo delle persone coinvolte nella vicenda. Inoltre, non si è riusciti a far capire le ragioni della revoca della scomunica. La notizia ovunque diffusa è infatti stata questa: il Papa riaccoglie nella Chiesa i lefebvriani, e questo accade nel momento in cui Williamson fa le affermazioni che ben conosciamo. Questa notizia è assolutamente falsa: il Papa non ha riaccolto nella Chiesa nessuno, perché i lefebvriani restano separati esattamente come resta separato il mondo ortodosso del patriarcato d’Oriente anche dopo la revoca della scomunica tra Atenagora e Paolo VI. Anche quella scomunica è stata revocata, ma è stata revocata, come questa, per poter affrontare senza esclusioni reciproche il dialogo per risolvere il problema della separazione, che resta, ed è – in entrambi i casi – dottrinale. È dovuto passare quasi un mese perché il Papa potesse spiegare questa cosa.

Per quanto riguarda invece gli errori di “governo”?

Anche sul livello decisionale il Papa è intervenuto in modo molto esplicito, riconducendo l’ufficio Ecclesia Dei sotto l’ambito della Congregazione per la dottrina della fede. Il problema principale è che le decisioni sono state rese operative in modo slegato, e ciascuno s’è mosso per proprio conto. E la risposta del Papa è stata quella di ricordare che queste cose devono essere decise collegialmente, e in tali circostanze la Curia deve mettersi in gioco tutta intera. Benedetto XVI ha così richiamato alla memoria quello che deve essere il modo normale di operare da parte della Curia romana, che purtroppo da molto tempo non opera più così. Un problema che affonda le proprie radici al tempo del pontificato di Giovanni Paolo II, il quale non si occupò di questo problema, e durante il quale si crearono dei veri e propri “feudi”. Benedetto XVI, a sua volta, ha rinunciato ad operare una riforma della Curia che, se fosse stata intrapresa, avrebbe assorbito gran parte delle sue azioni.

Sui media non si è parlato solo di problemi di governo, ma anche di una presunta solitudine del Papa; ipotesi che lo stesso Benedetto XVI ha respinto, con garbo e forza allo stesso tempo, durante il volo che lo portava in Africa.

Il Papa ha in un certo senso girato in ironia una situazione, che però per certi aspetti resta seria. Il termine solitudine del Papa è in effetti ambiguo: questo Papa non è affatto solo, se ci si riferisce al suo rapporto con la grande massa dei fedeli, che lo amano, e dei cittadini del mondo, che lo vedono come una grande autorità morale. La solitudine riguarda il livello del rapporto con un apparato istituzionale che dovrebbe – per sua stessa  ragione fondante! – sostenere il Papa e aiutarlo, e che in realtà invece non lo aiuta, e anzi a volte lo danneggia. Un apparato fatto di persone che hanno rapporti formali con il Papa, ma che in realtà non lavorano coerentemente con lui, sostenendone l’azione. E lo si è visto in queste settimane. La Curia non funziona per quello che dovrebbe essere, cioè uno strumento agile al servizio del Papa: è un apparato fatto di tanti “feudi”, come dicevamo, in cui anche il Segretario di Stato non è assolutamente in grado di rimettere ordine.

Alla luce di questa difficile situazione, in che modo viene vissuto il viaggio in Africa?

Certamente è una boccata d’aria, sia per il Papa, sia per gli osservatori che vedono il Papa agire in un contesto che è quello tipico della sua missione di pastore universale. Purtroppo, ci sono anche qui di nuovo le contingenze che possono sminuire questa immagine: nel viaggio di andata c’è stato il dialogo con i giornalisti, e l’immancabile domanda sull’Aids, e questo è stato ovviamente il tema di tutte le corrispondenze del giorno successivo. Ecco dunque che c’è di nuovo un’enfatizzazione su un argomento non centrale, su cui per altro non si è detto niente di nuovo, e niente che dovrebbe fare notizia. L’immagine del Papa è spesso quella che viene costruita, e questo viene fatto il più delle volte con schemi molto pregiudiziali, che fanno velo a quello che dovrebbe essere il vero scopo dell’informazione: far emergere genuinamente l’immagine reale del Papa, e del suo rapporto con i fedeli e il mondo intero.