«Il titolo riprende un versetto del Cantico dei Cantici che la tradizione vuole attribuire alla figura della regina di Saba. Una frase che la splendida sovrana, figura importantissima nella cultura etiope rivolge a Salomone». Così introduce al nome della mostra Nigra sum sed formosa. Sacro e Bellezza dell’Etiopia cristiana, allestita in questi giorni a Venezia, il professor Gianfranco Fiaccadori, docente ordinario di Civiltà Bizantina presso l’Università degli Studi di Milano. Dell’evento, il professore, ha curato in particolare il catalogo, affiancando il lavoro dei colleghi Giuseppe Barbieri e Mario Di Salvo. L’esposizione, che fino al 10 maggio sarà ospitata presso la sede espositiva dell’Università Ca’Foscari, rappresenta la prima rassegna nel nostro Paese totalmente dedicata all’arte etiope. Ma, al di là di questo primato, rappresenta anche la straordinaria occasione di poter ammirare opere fino a pochi anni fa sconosciute agli stessi addetti ai lavori.



Professor Fiaccadori, da dove nasce l’idea di dedicare una mostra all’arte cristiana dell’Etiopia?

 

Tutta l’iniziativa nasce da un gruppo di collezionisti d’arte che si è rivolto al mondo accademico nella speranza di condividere con la comunità scientifica quanto da essi raccolto nel corso degli anni. Sono stato invitato insieme ad alcuni miei colleghi a visionare questi materiali e devo ammettere che sono rimasto subito molto colpito trovandomi di fronte a uno spettacolo cui non avevo mai assistito in tutta la mia carriera. Ci siamo imbattuti in una grande raccolta di oggetti che sicuramente sono destinati a cambiare in maniera radicale la nostra concezione sull’Etiopia.  L’atteggiamento che noi europei infatti abbiamo nei confronti del profilo storico-artistico di questo Paese è sempre stato caratterizzato da una certa sufficienza, mentre l’Etiopia è molto più considerata sotto altri versanti culturali, come quello letterario, sempre quando non sia invece oggetto di cronache di guerra o altre tragedie del continente africano. In tal senso abbiamo inteso dare spazio all’ispirazione religiosa nell’arte etiopica, allo sviluppo che tale aspetto diede alla dimensione pittorica.



Si tratta dunque di una mostra di “rivelazioni”, perché sebbene la nostra conoscenza non fosse del tutto nulla era certamente limitata; bisogna considerare che molti manufatti artistici sono poi andati perduti nel corso del tempo, e che questa raccolta ci dà modo di riscoprire quello che credevamo ormai perso per sempre.

La scelta di Venezia per questa mostra non è casuale, vero?

No, infatti. Si tratta di una scelta assolutamente felice. Nessuna città ha più titolo per una mostra di questo tipo. Noi conosciamo abbastanza poco del medioevo etiopico e uno degli episodi più significativi di questo periodo è appunto lo scambio fra due mondi: fra Venezia e un mondo, quello dell’Etiopia, prima favoloso poi meno favoloso, perché comincia a venire frequentato da veneziani. In particolare la corte d’Etiopia venne raggiunta da un certo pittore, Niccolò Brancaleon. Questi raggiunse il Paese nel 1481 vi rimase fino al 1520/25, per più di quarant’anni quindi, dipingendo per l’aristocrazia locale. Di Brancaleon è stato rinvenuto un cospicuo numero di quadri, icone e manoscritti che recano la firma Nicolaus Brancaleon Venetus. L’artista aveva adottato anche un nome locale, Mercurios, e visse con moglie e figli, perfettamente inserito nei costumi del posto, ma rimanendo comunque un veneto orgoglioso delle proprie origini. Venne poi incontrato dai portoghesi, Francisco Alvares, nella sua “Relazione dell’ambasceria” del 1525, ci parla di questo personaggio. Il rapporto con Venezia è quindi assai ben documentato, e spiega perfettamente l’evoluzione artistica dell’Etiopia.



Il titolo della mostra richiama al cristianesimo. Qual è il rapporto fra questo, l’Etiopia e la storia dell’arte del suo popolo?

Il cristianesimo si insedia nella regione quasi fin da subito. Già durante la prima metà del IV secolo sorgono le prime comunità cristiane e questo, sotto il profilo artistico, è un elemento ovviamente che non tarda a farsi vedere. Ma per quel che riguarda i primi tempi, l’arte etiopica si sviluppa sotto il segno di Roma e, soprattutto, di Bisanzio rimanendo priva di una sua originalità. In seguito queste “direttive” si perdono, il paese si ripiega all’interno lungo un arco di tempo che va dall’VIII al XII/XIII secolo continuando a elaborare un tipo di arte che è sostanzialmente tardo antica pur attraverso una serie di modificazioni. Quello che ci interessa evidenziare mediante questa mostra è come i veneziani, quando giungono in Etiopia alla fine del XV secolo, si innestano su una tradizione locale che è ben rappresentata, quella dalle radici cristiane tardo antiche e protobizantine appunto, e da questa mescolanza nasca un nuovo stile dal sapore “internazionale”. Uno stile che ha prodotto autentici capolavori che, lo ripeto, hanno colto di sorpresa anche me che mi occupo di arte bizantina da più di trent’anni.

Poi abbiamo curato di far vedere anche la “scuola” che i veneziani hanno importato, a cosa ha portato la loro presenza stabilendo dei canoni e dei modi di fare arte, un sistema delle arti, che è durato fino alla prima metà del Settecento.

Qual è la sezione della mostra che lei definirebbe “di punta”?

Il cuore della mostra è rappresentato soprattutto dalle tavole di legno dipinte. Noi abbiamo cercato di fare una premessa, prima di tutto il percorso: partiamo dalle chiese tagliate nella roccia, cioè dalla struttura architettonica che è una delle espressioni più tipiche dell’arte etiopica e dalla struttura dell’arte etiopica tout court che si vede rappresentata nelle croci astili. Con queste immagini indichiamo qual era il tipo di arte che si produceva in Etiopia prima che si riannodassero i contatti con il mondo mediterraneo. L’Etiopia, come ho accennato prima, ha avuto una gravitazione mediterranea, soprattutto su Bisanzio molto antica, la quale durò fino almeno alla fine del VII secolo. La venuta dell’Islam sulle sponde del Mar Rosso spostò gli equilibri e fece sì che il Paese si ripiegasse su di sé, perdendo anche i contatti con il cristianesimo in Palestina.

Di fatto queste presenze europee e veneziane riannodarono le relazioni più antiche, ma, passati  diversi secoli, produssero espressioni artistiche nuove. Per questo affermo che la parte più sorprendente e importante della mostra sono le tavole di legno dipinte, che sono il diretto risultato dell’influenza europea dal momento che precedentemente non esistevano. Si tratta di una forma d’arte fino a poco tempo fa per lo più sconosciuta o considerata perduta, la quale contiene un’originalità immensa e una serie di rappresentazioni che senza esagerare si possono definire meravigliose.