“Davide” di Carlo Coccioli, ripubblicato oggi dall’editore Sironi, dopo la prima edizione nel 1976, non è soltanto la storia di un uomo che la scelta di Dio ha reso eccezionale, ma anche la misteriosa vicenda di un popolo sul quale grava, come dono e come peso, l’elezione.

È il racconto in gran parte silenzioso e oscuro della ricerca che ogni uomo vive: chi sono io, fatto di terra e di lacrime, chi sei Tu, che mi invadi e ti celi, che vuoi da me, Tu che mi guidi implacabile e che nondimeno mi lasci in balia della tua Assenza? Il romanzo occupa un posto centrale nella produzione di Coccioli (1920-2003), scrittore poliglotta, espulso dal canone letterario italiano; la biografia di Davide germina nel 1966, quando nel percorso di avvicinamento alla religione ebraica lo scrittore subì il «fascino di una delle più straordinarie dimensioni di umanità che ci offra la storia», quella appunto del re d’Israele. Il lettore abituato al linguaggio biblico potrà apprezzare la ricostruzione di ambienti e di voci, di descrizioni della natura e degli ambienti operata dal romanzo e, cosa molto interessante, l’origine storica e biografica di tanti salmi più volte ricorrenti nella liturgia della Chiesa; ogni lettore ritroverà nella figura di Davide, che mantiene in sé qualcosa di selvaggio e insieme di altero, i tratti di un amore appassionato e sensuale per la vita e per il suo significato. In fondo questo romanzo non fa che narrare fatti già conosciuti nelle sue linee essenziali e qui sta forse la sua grandezza e la sua classicità. Come altri grandi libri, è la ripresa di una storia già raccontata e la sua originalità non sta tanto nel dar voce al silenzio della pagina biblica, quanto nella sua fedeltà allo spirito e alla lettera di quel testo originario.



Come in due altri libri famosi del Novecento, Le memorie di Adriano della Yourcenaur e La morte di Virgilio di Broch, anche il Davide di Coccioli prende avvio nell’ora della vecchiaia del re, quando ammalato e costretto a letto, presagisce la fine dei suoi giorni. Accanto a lui giace una giovane schiava per riscaldarne il debole corpo, fuori della stanza si intrecciano gli intrighi per la successione al trono.



Davide si rivolge a Dio e davanti a Lui rievoca la sua lunga vita, dall’ora in cui piccolo pastore fu unto da Samuele, alla vittoria su Golia, alla lunga lotta con Saul, alla fuga selvaggia tra i nemici di Israele, al regno conquistato col sangue e amministrato con giustizia.

Davide ha amato Dio, ma anche il suo popolo, le sue donne, Saul stesso, l’amico Gionata, il figlio ribelle Assalonne di un amore inebriante, cui la poesia dei salmi ha dato voce indimenticabile; ha amato, ma questo non gli ha impedito di peccare e di essere punito, senza cessare di amare. In tutte queste traversie, ed è forse questo il tratto più novecentesco del Davide di Coccioli, il peso della Presenza-Assenza di Dio e dunque l’ossessione della morte: «Baratro dove la demenza attende l’osservatore che non indietreggia e fugge… caos infinitamente più caotico che la stessa selva della gelosia… non più senso, non più parole… salvo Tu, ma davvero il mio abbandono a Te, la mia ossessione di Te, e perfino il mio amore per Te, davvero ciò deve obbligarmi a credere che Tu mi ricorderai dopo la mia morte?…Non potresti essere la forma più sublime dell’assenza? Vuoto e silenzio: così come vuoto-silenzio è stato prima di me, così vuoto-silenzio potrebbe essere dopo di me: per sempre».



Alla fine della sua vita Davide giunge a percepire che dentro la storia umana, fatta di spazio e di tempo, esiste una dimensione interiore, che sola permette di intendere la vicinanza degli avvenimenti al mistero di Dio. Tutti i giorni della sua esistenza, col canto e con la guerra, egli è riandato alle figure che lo costituiscono come uomo e come re: Abramo e Giacobbe e Giuseppe e Mosè e via via. La forza della memoria: vivere ogni cosa vissuta, contemporanei a tutto, anche a quanto verrà.