Fatti di cronaca anche recenti testimoniano come la dialettica e il presunto scontro tra dimensione religiosa e metodo scientifico siano all’ordine del giorno. L’opinione comune, veicolata da mezzi di informazione da tutti considerati autorevoli, ritiene la distinzione tra religione e scienza una delle grandi conquiste dell’età moderna contrapposta ad un medioevo proverbiale in cui i confini tra questi due ambiti erano molto labili e diedero vita a quella che potremmo definire una dimensione magica. La magia, si dice, da una parte attingeva al soprannaturale, facendo leva sulla superstizione, e dall’altra si presentava come una “pseudo-scienza” con saperi ed esperienze proprie.



Alla luce di questa vulgata, senza dubbio sorprendenti sono le conclusioni del recente volume di Gabriella Federici Vescovini, ordinario di Storia della filosofia all’Università di Firenze, dal titolo Medioevo magico (UTET 2008). La sua riflessione parte e si articola su tre poli, la religione, la magia e la scienza, operandone una chiara distinzione a partire da una rigorosa analisi delle fonti. Per magia l’autrice intende un qualunque procedimento in cui l’uomo interviene sulla realtà per ottenere certi effetti con l’aiuto di entità esterne alla realtà stessa. Ad esempio la conoscenza rivelata del futuro (divinazione) è processo che non obbedisce alle dinamiche naturali, ma trae origine da qualcosa di artificioso di cui si ignora la dinamica (occulto).



A partire da questa definizione il medioevo, dal punto di vista intellettuale e filosofico, viene delineato come il periodo “anti-magico” per eccellenza. Fin dai primi secoli cristiani infatti si assistette ad una netta distinzione tra la religione cristiana e la magia ereditata dall’antichità. Il culto a falsi dei per ottenere favori e benefici, fu così espulso dall’ambito razionale, sia scientifico sia religioso, per essere inglobato nell’insieme delle superstizioni.

La magia rientrò in ambito occidentale nel XII secolo tramite le traduzioni delle opere di ispirazione ermetica, arabo-ebraica. Tali testi però circolarono poco nei secoli XIII e XIV, per avere invece successo crescente solo dalla fine del Trecento. Religione e magia solo apparentemente avevano un punto in comune nei riti, nella cerimonie e nelle pratiche di culto. Le pratiche magiche e negromantiche erano infatti esercitate di nascosto da individui isolati, maghi o stregoni professionisti, mentre i riti religiosi erano di tutti e ogni individuo vi aveva una parte attiva. Oltre a un aspetto oggettivo – rituale, inoltre, il cristianesimo possedeva una dimensione individuale, identificabile nel rapporto interiore, di stampo agostiniano, del credente con il vero Dio, che la magia non conosceva.



D’altra parte nel medioevo la magia era ben distinta anche dal procedere scientifico di matrice aristotelica o sperimentale. Quest’ultimo si presentava come oggettivo e si basava sulla conoscenza per cause, sul principio di non contraddizione, mentre la magia era finalizzata ad un obiettivo specifico e prevedeva l’intervento di forze estranee all’oggetto considerato.

In poche parole nel medioevo secondo la studiosa, scienza e religione avevano in comune il metodo, ossia stavano di fronte al dato, fosse esso la rivelazione o la natura, per conoscerlo e, per quanto possibile, comprenderlo. La magia negromantica, al contrario, aveva come scopo la manipolazione e la coercizione della realtà, il piegare la natura alle proprie finalità, chiamando in causa forze estranee.

Fu invece con il Rinascimento, con i grandi filosofi – maghi (Marsilio Ficino, Pico, Giordano Bruno) che i confini tra religione, magia e scienza diventarono più labili e in occidente presero piede conoscenze estranee all’originaria cultura cristiana. E non è certo un caso che proprio in questo periodo illuminato e non nell’oscuro medioevo fiorì la caccia alle streghe.