«Già la primavera riporta miti tepori, già il fervido vento dell’equinozio lascia il posto alla silenziosa aura dello zefiro»: così si esprime il giovane poeta Catullo, relegato in Frigia durante un inverno militare, impaziente di tornare a casa attraverso le famose città della Grecia. Non erano allora tempi di viaggi; la società romana era prevalentemente statica. Si muovevano gli eserciti, i grandi impresari, i funzionari e quei pochi intellettuali che completavano i loro studi ad Atene. Non pochi in una società così strutturata disprezzavano la moda dei cambiamenti: «Mutano il cielo, non l’animo coloro che corrono al di là del mare».



Ma la primavera segnava l’inizio delle attività necessarie, dopo la forzata pausa invernale e dunque anche il viaggio si ascriveva come ulteriore elemento dinamico e apriva un varco all’inerzia malinconica dell’inverno: «Già i piedi riprendono vita, già la mente desidera vagare»: ancora Catullo stabilisce l’analogia tra il clima e l’inquietudine umana.



Veramente di malinconia ce n’è un po’ dappertutto, anche nel viaggio: lasciare ciò che è caro e consueto, affidarsi all’imprevisto priva la vita dell’equilibrio su cui essa fonda parte della stabilità che le è consentita. Ma la curiosità o il piacere dell’ignoto prevalgono e l’uomo parte: è il tempo favorevole. Anche Dante, il grande viaggiatore, si muove a primavera. Quanti amori iniziano nella bella stagione e si sa come ogni innamoramento assomigli al viaggio.

C’è una osservazione di Claudio Magris in Microcosmi che equipara al viaggio la scrittura: «Scrivere significa sapere di non essere nella Terra Promessa e di non potervi arrivare mai, ma continuare tenacemente il cammino nella sua direzione, attraverso il deserto. Seduti al caffè, si è in viaggio; come in treno, in albergo o per la strada, si hanno con sé pochissime cose, non si può apporre a nulla una vanitosa impronta personale, non si è nessuno» (pag. 24).



Nel viaggio l’uomo è più se stesso, perché è povero e forse per questo, più aperto agli incontri. «Gesù, stanco del viaggio, sedeva presso un pozzo». Molti incontri del Signore avvengono sulla via, là dove l’altro non ha difese e ascolta e crede: la samaritana, la cananea, Zaccheo, il centurione, il cieco nato, i due di Emmaus. La cornice è ridotta a poco: una strada, alcune poche persone, il cielo. Forse non si pensa abbastanza che il viaggio avviene prevalentemente all’aperto e che accanto ai rumori che lo accompagnano, la sua atmosfera di fondo è il silenzio. Ci sono molti tipi di silenzio: quello degli uomini è più scabro, non confonde nostalgia e ricordo, raramente elabora il lutto delle cose passate. Il silenzio maschile pensa mentre cammina. La donna più spesso ascolta e rimanda l’esito della sua ricerca alla fine del viaggio e solo allora scrive.

Quando uno dei due muore, anche il loro viaggio comune si trasforma, ma non viene meno. Tutti conosciamo il viaggio di Montale e della Mosca dopo la morte di lei, una convivenza fatta di segni, di scale, di occhi offuscati. Un poeta meno noto, di cui parla Magris, il friulano Menocchio, quando gli morì la moglie disse disperato: «Era lo mio governo». Parole che valgono un poema, il poema che la poesia raramente sa dire davanti alla vita.

Quello che Gaber aveva scritto in una canzone d’amore, Chiedo scusa se parlo di Maria, dove Maria condensava tutto il significato delle lotte e della realtà di quegli anni. Non a caso nei suoi concerti non gliela lasciavano cantare. Anche per oggi non si vola, appunto. E senza Maria, neanche si viaggia.