Pochi giorni dopo la morte di Eluana Englaro sono apparsi su La Repubblica due articoli che da prospettive differenti, ma complementari, si proponevano di offrire una lettura del caso proiettandolo su uno scenario intellettuale più ampio di quanto il polverone della bagarre mediatica lasciasse intravedere. I problemi filosofici sollevati in questi interventi, per non ridursi alla semplice enunciazione di tesi, richiederebbero uno spazio di argomentazione meno limitato di quello concesso alla forma di comunicazione giornalistica. Tuttavia, bisogna riconoscere che entrambi gli autori, M. Niola e R. Esposito, hanno il merito di indicare una questione, o forse la questione, centrale, quella che il primo definisce “la posta in gioco” nella battaglia biopolitica, e Esposito individua, già nel titolo, in una domanda: «Può una persona appartenere a un altro?», che, ovviamente, è una domanda retorica, come mostra il resto dell’articolo: una volta che il corpo, nella fase terminale, è ridotto a “nuda vita” – Niola parla di “minimo comun denominatore biologico” – a “pura cosa”, avendo perso il suo “proprietario naturale”, cioè “il soggetto che lo abita”, chi ne diventa il proprietario, “Dio, lo Stato, chi lo ha generato, chi lo ha in custodia”? Una questione di “possesso” e di “potere”, dunque: a chi appartiene ultimamente l’uomo, la vita dell’uomo, chi ha potere di decidere il suo destino, chi e quando debba vivere o morire?



La risposta del primo articolo mi pare non lasci adito a dubbi: se «l’idea sociale di corpo precede e plasma gli individui in carne e ossa», se la “cera bianca” della mia identità corporea e, in fondo personale, è definita da un processo di normalizzazione che passa attraverso forme di controllo sociale, la società e, perciò, lo Stato che ultimamente la esprime, detiene già questo possesso, quindi ha anche il potere. In questo senso l’affermazione iniziale «non basta nascere per avere un corpo», è la versione antropologico-culturale della tesi antropologico-filosofica che oggi va per la maggiore: non basta essere un essere umano, nato da due esseri umani, per essere una persona, perciò non tutti gli esseri umani sono persone. Questa tesi che serpeggia in tutto il secondo articolo è sostenuta oggi da molti filosofi – Derek Parfit e Peter Singer, sono solo due esempi illustri – e anche, duole dirlo, da molti bioeticisti – basti citare Hugo Tristram Engelhardt Jr., il sommo sacerdote della bioetica americana. Anche Sebastiano Maffettone già nel 1989, in un volume intitolato Valori Comuni, nel capitolo “Un’etica pubblica per la vita”, indicava il principio di una visione “laica e pluralistica” nella «separazione del concetto di persona da un altro, che di solito viene associato naturalmente ad esso, quello di essere umano. Si può partire dall’assunzione [sic!] che non tutte le persone siano esseri umani e che non tutti gli esseri umani siano persone. È abbastanza facile [ sic!] – anche se non tutti sono d’accordo [è pluralista!] – trovare esempi di esseri umani che non sono persone, quali i feti e gli uomini che sono in stato comatoso grave.» (S. Maffettone, Valori comuni, 1989, p.223).



Niente di nuovo sotto il sole dunque? Non direi, visto che oggi sperimentiamo gli “effetti” di queste idee. Il che dovrebbe per lo meno guarirci dall’illusione che i filosofi siano personaggi bizzarri, ma tutto sommato innocui, che diffondono inoffensive panzane.

«Non basta nascere per avere un corpo», non basta nascere da due esseri umani per essere una persona, più che un giudizio pare proprio una sentenza, la sentenza di una corte-cultura che, prima ancora del valore della vita, ha perso il “senso” della nascita che «ha inizio da un’unione e ad un’unione tende», come dice una poesia di Karol Woityla.



Più aperta, sembra la conclusione del secondo articolo che auspica una modificazione radicale del nostro linguaggio, ma in quale direzione? E non è forse già avvenuta una modificazione radicale del nostro linguaggio, proprio riguardo al significato delle parole più importanti, che definiscono l’uomo, la nostra esperienza di uomini – di quelle che anche Maffettone deve riconoscere come le associazioni più naturali -, una sorta di alienazione che ci consegna alla “solitudine delle opinioni”?

Bisogna notare che la formulazione di Esposito tradisce una certa incoerenza: di fatto la questione così come è enunciata, non si limita alla fase terminale della vita, anche se in questa fase il problema può diventare più evidente. Se il corpo è pura cosa, “oggetto” posseduto da un soggetto/coscienza che lo abita, allora lo è sempre, in qualsiasi fase della vita, e qui sorge immediatamente una domanda: in che senso il corpo può essere considerato un puro oggetto, in che senso è “posseduto”? L’autore osserva in proposito che è sempre esistita una non completa identificazione tra “persona e essere umano” e, una volta che si è identificata la persona con la “parte razionale e volontaria” dell’essere vivente, «tutto ciò che rimane, vale a dire il suo stesso corpo, non può che scivolare nel regime della cosa. A riprova di ciò, anche nel linguaggio comune si afferma normalmente di “avere” piuttosto che di “essere”, un corpo».

A parte ogni altra considerazione – e l’affermata non identificazione tra persona e essere umano richiederebbe in realtà molte considerazioni storiche e teoretiche, Robert Spaemann ha dedicato a questo argomento uno dei suoi studi più densi e significativi (Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno” ) -, potrebbe sollevare qualche interrogativo l’allusione al linguaggio comune e la sua identificazione con una forma specifica di linguaggio, cioè la completa riduzione del significato dell’ “avere” a quello del “possedere”, nei termini del gergo giuridico-economico della “proprietà” di beni, intesi come cose. Ci si potrebbe chiedere se questo linguaggio sia adeguato a esprimere totalmente il modo in cui abbiamo esperienza dell’“avere” qualcosa come il corpo o la vita, ad esempio, ma anche, ad un altro livello, i figli, i genitori, gli amici, un marito, una moglie, una famiglia, una comunità, una cultura, una patria… . La risposta alla domanda iniziale – può una persona “appartenere” ad un altro? – dipende principalmente dal significato che riconosciamo al verbo “appartenere” e dal cammino di conoscenza che questo riconoscimento innesca. Diversamente è una pura, amara, constatazione, che può determinare le reazioni più varie, per lo più velleitarie e alienanti. Si potrebbe ricordare che una certa tradizione, quella cristiana, ha cercato di esprimere i paradossi impliciti in alcune di queste singolari forme di “proprietà” e “appartenenza” utilizzando il linguaggio del “dono” – dicendo che la vita è un dono, che i figli sono un dono, ad esempio, o, a un livello ancor più profondo, che l’appartenenza è un carisma – il che, al di là di tutte le possibili interpretazioni pietistiche, introduce nell’idea dell’avere-appartenere un elemento di irriducibile gratuità, indisponibilità, responsabilità e, soprattutto, l’idea di un rapporto con un altro, il “donatore”, che, come ben sa chiunque abbia ricevuto un regalo, è più importante dell’oggetto ricevuto, gli dà valore, significato, riconfigura totalmente il senso della proprietà e del possesso. In ogni caso, anche ammessa una simile accezione riduttiva dell’avere un corpo, come l’unica concepibile nella nostra società ossessionata dal possesso e che pare aver smarrito il senso originariamente qualitativo della proprietas come rettitudine o giustizia del rapporto, si deve comunque trattare di una “proprietà” alquanto particolare, visto che nessuna forma di giurisprudenza mi riconosce il diritto di alienarla, di disporne totalmente: non posso autoridurmi in schiavitù o vendere parti del mio corpo. La mercificazione del corpo umano, attiva o passiva, ad ogni livello è considerata moralmente sbagliata e giuridicamente illecita o, come minimo, problematica (pensiamo al tema della donazione degli organi e del suo sempre possibile sconfinamento in commercio degli organi).

Che il corpo umano possa essere ridotto a puro oggetto, a cosa, e come tale trattato e posseduto, è un fatto attestato da tutta la storia umana e, purtroppo, anche dalla cronaca quotidiana di interminabili violenze e di continue violazioni, più o meno volgari e grossolane. È quello che Ricoeur definiva il “paradosso della medicina”, ma che non si limita al campo biomedico, dilatandosi come un’ombra in ogni rapporto umano e ponendo infine la vera questione di fondo, politica nel senso più ampio del termine: la questione del potere. Un potere che sempre si costruisce «sulle incertezze, sulle necessità, sulle indigenze, sui bisogni e sui limiti», come affermava don Giussani in un saggio del 1983 e più che mai attuale, perché indica con grande lucidità la radice della nostra debolezza di fronte al potere (L. Giussani, La crisi dell’esperienza cristiana e il trionfo del potere). Un potere che si costruisce, dunque, anzitutto sul “corpo” e sulle sue necessità, ma che è potere su tutto l’uomo, secondo una logica che il progresso scientifico-tecnologico ha reso più ambigua e totalizzante, dal momento che «Ciò che va sotto il nome di potere dell’Uomo sulla Natura risulta essere un potere esercitato da alcuni uomini sopra altri uomini con la natura a fungere da strumento» (C.S.Lewis, L’abolizione dell’uomo, 1979, 59.)