L’esile silhouette di una figura slanciata, contro un cielo carico di colori, solcato di striature che risaltano per il loro biancore: non semplici vuoti, ma varchi tenuti aperti, quasi trasparenze che rimandano come segni alla Presenza nascosta che si cela immediatamente al di là di quanto appare alla nostra vista superficiale. È questo uno dei soggetti preferiti degli acquerelli che infiorano l’ultima raccolta di omelie dell’abate cistercense di Hauterive, p. Mauro-Giuseppe Lepori: La vita si è manifestata. Omelie sull’attesa, l’avvenimento e la manifestazione dell’Incarnazione del Signore. Illustrate da acquerelli dell’autore, Genova-Milano, Marietti, 2008.



L’immagine-simbolo evoca subito la dimensione dell’uomo che sta di fronte alla vastità del Mistero che lo sovrasta. La veste è lunga sino ai piedi, le mani appena abbozzate si protendono nel gesto umile e antico della preghiera. È chiaramente l’icona del monaco immerso nel silenzio di una vita concentrata sull’essenziale. Ma nello stesso tempo è la metafora del mendicante che ognuno di noi può diventare, quando si raccoglie nella coscienza che lo costituisce al fondo come persona, davanti alla sovrabbondanza dell’Essere che lo fa esistere e lo avvolge da ogni lato, strappandolo dal nulla in cui rischierebbe di franare la nostra esistenza, abbandonata alla sua orgogliosa presunzione di autonomia.



Il mendicante è l’uomo assetato di desiderio, che riconosce di non potersi fare da sé, e per questo si affida e si lascia abbracciare dalla realtà del Tutto che lo precede, di cui si sente ospite inadeguato, sproporzionato, eppure irresistibilmente voluto bene. La sproporzione si spalanca proprio perché la povertà dell’uomo che vive nel bisogno è un dialogo aperto con un Tu da cui si scopre di dipendere: io sono “Tu che mi fai”, come tante volte abbiamo sentito ripetere. In effetti, è il senso di una oggettività che incombe quello che domina tutta la più genuina mistica cristiana, dalle sue prime scaturigini, neotestamentarie e patristiche, fino alle vette degli “spirituali” dei nostri tempi moderni. E un Tu oggettivo che suscita, accoglie e fa muovere l’io dell’uomo alla ricerca della sua pienezza è anche il vero protagonista centrale di La vita si è manifestata. L’accento è posto sulla logica inesorabile di questa Vita che emerge dagli abissi del mistero di Dio, facendosi incontro al cuore dell’uomo, prima e anche al di là della piena lucidità della sua domanda lanciata verso gli orizzonti sconfinati del destino ultimo che salva la vita. Siamo resi spettatori del dispiegarsi di una storia di salvezza che non ci siamo creati da soli, che ci raggiunge nella terra di Betlemme della nostra condizione di uomini, e di cui l’avvenimento dell’incarnazione è il sussulto già trionfale che, dalla notte dei secoli, attraversa lo spazio del nostro universo.



La proposta meditativa dell’abate di Hauterive è impregnata di questo realismo ancorato alla logica dell’oggettività. L’incarnazione di Cristo non è altro che il venire prepotentemente alla luce del movimento della grazia di Dio. È ciò in cui si riversa, per il suo interno dinamismo, senza che noi lo abbiamo voluto e tantomeno meritato, l’«amore gratuito di Dio», «invincibile e infinito», l’«amore misericordioso del Signore». Nel segno assolutamente fragile ed equivocabile del Bambino adorato dai pastori nella grotta del presepio, dentro il germe a prima vista insignificante di una realtà umana investita dal divino, si addensa la «manifestazione suprema della misericordia di Dio». Gesù (il Signore salva), che nasce in mezzo al fluire delle generazioni umane, è il dono supremo della «gratuità infinita dell’amore di Dio». Non a caso, il simbolismo di linguaggio che ritorna più frequentemente per alludere a questo prendere forma concreta della misericordia di Dio è quello, molto fisico e precisamente luminoso, dell’«irradiamento». La grazia che salva rovesciandosi nella compassione per l’uomo malato e peccatore è come l’espansione materiale della carità che germoglia dal circuito di relazioni della Trinità. È un amore che si dilata, o come scrive spesso p. Lepori che «fluisce», inondando la realtà della storia che si modella secondo i ritmi del nostro tempo umano da redimere.

Nessun immobilismo evasivo è autorizzato da questa impostazione del dialogo tra noi mendicanti di infinito e la grande Presenza nascosta che fonda la nostra vera speranza. Anche noi «siamo invitati a entrare in questo movimento infinito di Amore trinitario», di cui il Natale ci ha aiutato a fare memoria. L’Amore misericordioso che si china sulla realtà povera del mondo «sta alla porta e bussa». Proprio perché è una realtà oggettiva da riconoscere, sotto i segni umani di cui si riveste per lasciarsi incontrare, noi siamo chiamati ad «accoglierlo». Ce lo mostrano in modo esemplare i gesti di adorazione dei pastori nella Notte Santa, la visita dei Magi, prima ancora la tenace pazienza del servizio materno di Maria. Nell’umiltà semplicissima di questa accettazione si pone l’inizio che può fiorire nel legame, tenero e appassionato, di quello che p. Lepori identifica, molto concretamente, con la densità umana di una «relazione». L’umanità in cui risplende la presenza sensibile di Cristo si prolunga fino a noi e ci tocca, là dove si svolge la nostra esistenza abbracciata dalla realtà della Chiesa vivente. In quanto realtà umana di un Corpo in cui si viene innestati, l’amore per il segno  che lo rivela genera da sé una «relazione di amore e di obbedienza», fondata su una «fede fiduciosa» come quella che la Madre di Cristo ha lasciato crescere in lei stando di fronte al Figlio portato nel proprio grembo, «adorandolo» nella semplicità di una carità che investiva tutta la sua esistenza, fino ai suoi risvolti più quotidiani e materiali.

La bellezza di questa «relazione» coinvolgente sta nella positività umana che trascina con sé come promessa. Al fluire della grazia che raggiunge l’uomo attraverso l’offerta di Cristo per la nostra salvezza corrisponde l’eco perfettamente consonante del registro affettivo della «gioia»: la sobria e composta letizia cristiana. Lo sfondo su cui muove la dinamica del rapporto tra l’uomo e Dio è sempre e soltanto la «gioia di essere salvati»: la «salvezza è la nostra vera gioia». La promessa, alla fine, è quella di una realtà umana ricondotta al suo ordine vero, al suo fine e al suo destino, dentro una pace che rimette a posto le cose e restituisce dignità e significato anche alla fatica e alla sopportazione del limite che non si può estirpare. La vita del cristiano trasfigurata dalla carità di Dio è una luce che si irradia a sua volta nello spazio del mondo. Da qui nasce la missione: come una «sovrabbondanza di gioia» che trabocca e rifluisce in una carità aperta a tutti, senza confini, a partire da ciò che è più comune e ci rende familiari all’intero nostro prossimo: il lavoro, la casa, la convivenza nella società. La «riconciliazione, l’amore fraterno, la comunione» tra i cristiani sono il primo grande segno dell’irradiamento contagioso dell’adorazione di Cristo, senza il quale la missione della Chiesa è privata della sua sostanza umana più persuasiva e illanguidisce. Stando «davanti a Cristo, la saggezza che adora si riposa e s’infiamma nella carità».