Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo su ilsussidiario.net un brano tratto dal libro La vita si è manifestata (pp. 254-249)

Omelia per la festa di san Giuseppe lavoratore, 1 maggio 2001 Letture: Colossesi 3,14-15.17.23-24; Matteo 13,54-58:

Ascoltando la prima lettura di questa memoria di san Giuseppe lavoratore, tratta dalla Lettera di san Paolo ai Colossesi, un profondo desiderio si anima in noi. Come ci piacerebbe vivere così! Mettendo sempre l’amore al di sopra di tutto; serbando sempre nei nostri cuori la pace di Cristo; rimanendo sempre in azione di grazie; lavorando sempre, in qualsiasi occupazione, con tutto il cuore per il Signore!



Abbiamo spesso l’impressione di non riuscire a mettere l’amore da nessuna parte, di vivere divisi, tagliati a pezzi dalle molteplici cose che facciamo, perdendo così facilmente la pace del cuore; e la noia e il disgusto sostituiscono spesso l’azione di grazie! Tuttavia, se san Paolo ci invita a ciò, significa che questa umanità bella, aperta, positiva, benevola, armoniosa, ardente, gioiosa, è possibile. E i santi ce lo testimoniano.



D’altra parte, questo desiderio di armonia, d’amore, di pace, di unità, non è semplicemente un sogno: esso è inscritto nel nostro cuore come un seme che vuole germogliare e, ogni volta che ci confrontiamo con la realtà quotidiana della nostra esistenza, è come se il richiamo di quel seme si facesse sentire di nuovo. Perché quel desiderio di armonia che abita il nostro cuore è proprio la nostra vocazione fondamentale e universale: «E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo».

Ciò significa pure che la pace e l’armonia che ci sono promesse per vocazione, non sono il frutto di condizioni ideali, ma una grazia. Perché questa pace non è la nostra pace: è la pace di Cristo: «E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati». La pace nel nostro cuore e nella nostra vita non sarà quindi il risultato di un processo di piallatura di tutto ciò che ci disturba e ci inquieta. La pace di Cristo è la pace di Cristo: ci viene donata con Lui, con la sua presenza, con la sua venuta.



Allora, che cosa dobbiamo fare? San Paolo risponde con una della sua frasi più belle: «Tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre». In questa frase c’è tutta la vita cristiana, tutta la cultura cristiana, tutta la morale cristiana, tutta la santità cristiana.

La vita cristiana è un’esperienza integrale: tutto ciò che diciamo, tutto ciò che facciamo, possiamo sempre viverlo «nel nome del Signore Gesù». Ciò significa che tutto quello che facciamo e diciamo può sempre essere in relazione con Cristo e, tramite Lui, in relazione con il Padre. Il nome del Signore Gesù è la sua presenza in quanto essa è in relazione con noi, in quanto essa è per noi. Un nome designa una presenza personale a cui posso accedere, che posso chiamare, che posso invocare. Il nome è l’accesso a una relazione, l’apertura per me di una relazione personale.

Ora, grazie a questa relazione aperta con Gesù, tutto ciò che tesse l’esperienza umana concreta di ogni giorno entra in una dimensione completamente diversa da quella che le apparenze vorrebbero farci credere. Di colpo, l’azione che compio adesso, fosse anche la più insignificante o la più sgradevole, acquista una dimensione teologale e trinitaria, perché entra nella mia relazione con Cristo e, tramite Lui, in relazione di azione di grazie rivolta a Dio Padre. E questa dimensione cambia il valore di ogni esperienza.

È in questo senso che possiamo pensare a Nazaret, alla vita quotidiana di Gesù, Maria e Giuseppe. Era una vita quotidiana come quella di tutti gli altri, come la nostra. Ma la sua inaudita originalità stava nella relazione reale con Gesù.

L’esperienza di san Giuseppe in questo senso è fondamentale, ed è importante coglierne la natura profonda, per non limitarci a uno sguardo sentimentale su di lui, che non sarebbe di alcuna utilità per il nostro cammino nella relazione con Cristo presente nella nostra vita quotidiana, nella nostra Nazaret.

Quando Giuseppe ha appreso che doveva accogliere il Figlio di Dio nella sua vita, nella sua famiglia e nella sua casa, probabilmente si è detto: «Come dovrò comportarmi davanti a Lui? Dovrò adorarlo ventiquattrore su ventiquattro, rimanere prosternato davanti a Lui, dovrò evitare di toccarlo, e togliermi i sandali ogni volta che mi avvicinerò a Lui?!».

Poi il Bambino nasce, e Giuseppe si deve rendere conto che l’Incarnazione di Dio non è una messa in scena. Il Figlio di Dio è un bambino veramente bambino, un uomo veramente uomo. Si ha un bel voler restare in adorazione davanti a Lui ventiquattrore su ventiquattro, ma Lui piange perché ha fame, perché ha freddo. Bisogna cercare della legna, accendere un fuoco; in seguito bisognerà guadagnare per Lui il pane quotidiano, poi si dovrà fuggire in Egitto, il che significa preparare i bagagli, bardare l’asino, mettersi in cammino, affrontare pericoli, imprevisti…

Giuseppe si rende conto così che tutta la sua vita, veramente tutta, compresa la cura dell’asino, viene a partecipare della sua relazione con Gesù. Giuseppe si accorge che tutta la sua vita può essere una vita per Gesù; che tutta la sua vita, fin nel minimo dettaglio, entra nella relazione con Gesù. E scopre in ciò un’intensità di vita, un gusto di vivere, che non aveva mai sperimentato in precedenza. Tutto nella sua vita diventa «per il Signore», come chiede san Paolo. Così, Giuseppe non fa alcuna fatica a «fare di cuore» qualsiasi lavoro debba fare. Il suo servizio del Signore penetra così tutta la sua esistenza, tutti i suoi gesti: «Servite a Cristo Signore».

San Giuseppe, evidentemente, ha dovuto aspettare anni prima di poter avere con Gesù un rapporto maturo, un dialogo maturo. Ma già quando lavorava per il Bambino incapace di parlare, Giuseppe era teso verso quel dialogo, verso quella relazione matura, che ha potuto avere con Lui anni dopo. Giuseppe ha saputo attendere, ma ha atteso… teso. La sua pazienza era tesa verso la maturazione del suo rapporto con Cristo.

I problemi che ha sicuramente avuto nel suo lavoro, con le persone, o con l’asino, sono probabilmente stati gli stessi quando Gesù aveva pochi mesi o venticinque anni. Ma quando Gesù ha avuto venticinque anni, Giuseppe ha potuto parlargli di quei problemi, e ciò ha cambiato tutto. Giuseppe divenne molto più libero rispetto all’asino e al lavoro, perché capiva più facilmente che Gesù era più importante del resto, e che non c’era bisogno di fare uno sforzo volontaristico per lavorare per Lui, per lavorare e vivere tutto «nel nome del Signore Gesù», offrendo tramite Lui l’azione di grazie a Dio Padre.

Il pericolo, quando si serve il Signore, è spesso quello di essere più attenti al servizio stesso che alla relazione con Lui. Ciò fa sì che siamo concentrati sul servizio, ma è come se il servizio mancasse di tensione, di slancio.

Anche noi dobbiamo avere pazienza, ma più con noi stessi che con Gesù che deve crescere. Tale crescita, che Maria e Giuseppe hanno dovuto attendere basandosi sui tempi di una crescita umana normale, noi invece la viviamo secondo i tempi della nostra maturazione spirituale. Ora non è più l’uomo Gesù che deve crescere, imparare a parlare, a lavorare con noi, ecc., ma siamo noi che dobbiamo crescere nella capacità di entrare in relazione costante con questa Presenza che trasforma la vita. Gesù per noi è già il Risorto glorioso che bussa alla porta di tutta la nostra vita per trasformarla in vita di comunione con Lui, in tutti i suoi dettagli.

Le nostre difficoltà con il lavoro, con le occupazioni, con le molteplici circostanze della nostra esistenza quotidiana, non nascono per mancanza della presenza di Cristo, ma per mancanza di maturità nella relazione con Lui.

Per questo abbiamo bisogno della Vergine Maria, di san Giuseppe, della Chiesa e delle nostre comunità, perché ci rammentino che l’armonia della nostra vita non è là dove controlliamo tutto, là dove abbiamo organizzato tutto bene, là dove non ci sono più problemi, ma là dove accogliamo la presenza reale del Signore che ci dona di amarlo vivendo tutto con Lui e per Lui, verso il Padre, nello Spirito Santo.

(Padre Giuseppe Lepori)