Nel suo ultimo romanzo, Aharon Appelfeld trasporta tutto il dramma della propria vita nelle vicende di una piccola bambina ebrea dell’Europa dell’Est: l’allontanamento dalla propria famiglia, il vagare in un mondo dominato dall’odio, e a un tratto la riscoperta di una possibilità nuova per essere se stessa. Un “paesaggio con bambina” (questo il titolo del romanzo) che è il paesaggio stesso dell’esistenza dell’autore, orfano, esule, vagabondo, prima di approdare al porto di una nuova patria e di una nuova identità.
Di questo, e di molto altro, Appelfeld ha parlato nei giorni scorsi presentando il suo ultimo libro al Centro Culturale di Milano, dove lo abbiamo raggiunto.
La sua esperienza esistenziale è come una sorta di viaggio alla riscoperta delle radici proprie e del proprio popolo. Un viaggio emblematico della condizione dell’uomo moderno. Come la sua esperienza può avere un valore anche per noi europei, che viviamo la stessa drammatica lontananza dalle nostre radici?
La mia personale identità è come l’incrocio di tre identità diverse, spesso quasi conflittuali tra loro. Io, innanzitutto, provengo da una famiglia ebraica che si concepiva totalmente appartenente alla cultura europea: quella era infatti la loro formazione, data anche dal fatto di aver frequentato scuole e università europee. Pur senza rinnegare l’origine ebraica, si sentivano del tutto assimilati all’Europa. Questi erano i miei genitori, con cui io ho vissuto nove anni, e con cui sono cresciuto da europeo. Poi c’è stata la guerra, che mi ha separato da loro: mia madre è stata uccisa, mio padre rinchiuso in un campo di concentramento. Io invece sono riuscito a scappare, e ho vissuto per alcuni anni nei boschi.
Come è avvenuta la riscoperta delle altre due identità di cui parlava?
La mia seconda identità è appunto quella ebraica, vissuta fuori dalla mia famiglia, tra gli ebrei che volevano integrarsi nell’Europa del XX secolo. Questo non è stato possibile: è arrivato l’Olocausto, e ha detto agli ebrei che non potevano appartenere all’Europa, ma solo alla loro ebraicità. Da questa seconda frattura nasce, infine, la mia terza identità, che è quella israeliana. Io sono arrivato in Israele per trovare una casa, e una lingua.
Dunque l’esistenza stessa dello Stato d’Israele è stato un nuovo orizzonte di ricerca d’identità e di significato nella sua vita?
È stato certamente così; ma bisogna stare attenti a non semplificare. Israele era uno Stato di pionieri, e non fu per nulla facile costruirlo. Nel 1946, infatti, era uno Stato molto ideologizzato: il motto era “dimentica il tuo passato, il tuo brutto passato in Europa”. E ancora: “costruiremo un nuovo ebreo”, un “ebreo forte”. Io invece non volevo assolutamente diventare qualcosa di nuovo: io desideravo sempre di più diventare come i miei genitori, e come i miei nonni.
Lei ha spesso sottolineato la presenza di questi due piani: il rapporto con i genitori, e il rapporto, diverso, con i nonni.
Questi rapporti sono stati per me il centro di tutto. Io volevo essere come i miei genitori, e in un certo senso li ho riportati in vita attraverso i miei libri. E allo stesso tempo volevo essere come i miei nonni, che a differenza dei miei genitori erano molto religiosi, pur senza essere dei predicatori, ma dei semplici contadini.
A proposito di questo riportare in vita attraverso i libri: lei dice che la parola serve per unire passato e presente, ma aggiunge che la parola da sola non basta. Bisogna recuperare la melodia, quella melodia radicata, ad esempio, nella tradizione della preghiera e della salmodia. Cosa significa?
La melodia è forse la parte più profonda di un essere umano, perché è la lingua dell’interiorità. È questa, ad esempio, la lingua che porta alla scoperta dell’inconscio. Il linguaggio che noi usiamo quotidianamente è un po’ come una copertura: parliamo per fare un’impressione, o per esprimere quello che desideriamo. Ma la melodia viene fuori da noi, e noi stessi non sappiamo bene cosa sia. Ogni scrittore dovrebbe avere la sua propria melodia. E in questo si può riconoscere un valido scrittore: nel percepire che quello che dà non sono solo parole.
Molti scrittori probabilmente non comprenderebbero nemmeno quello che lei sta dicendo…
Allora non chiamiamoli scrittori, ma solo autori di parole vuote.
Le parole vuote sono anche quelle che impediscono il dialogo tra le diverse culture, come quella israeliana, araba ed europea. Come recuperare – prima del livello politico – la possibilità di dialogo tra le diverse culture?
È difficile rispondere. Certamente il dialogo vero dovrebbe essere il modo migliore di comunicare con gli altri: tu esprimi, porti te stesso all’altro, e poi ti aspetti un responso, comprendendo la persona che hai di fronte. Ma questo veicolo diventa troppo spesso un meccanismo vuoto. Basta guardare le conferenze politiche, che sono piene di puri slogan, dove nessuno si ascolta. Ecco, questo è il contrario di una vera lingua: l’utilizzo di slogan.
Quindi il dialogo avviene grazie al recupero di quello di cui parlavamo prima: un’identità forte, e una lingua capace di esprimerla dal profondo.
Il dialogo avviene tra identità forti, cioè tra persone forti che parlano tra loro per comunicare la propria anima, e non per gettare all’altro slogan vuoti. Se accade così spesso di perdersi in chiacchiere è perché la gente non è educata a parlare davvero.
Come recuperare questa capacità di parlare?
Come dicevo, bisogna educarsi. Innanzitutto è il cuore che ci aiuta e ci permette di rivelare noi a noi stessi. Poi bisogna saper creare la propria lingua: per esempio, sentire almeno un’ora al giorno la musica può aiutare in questo, perché le parole comparate alla musica sono più “brutali”. La musica invece è connessa alla purezza: quando ascolti Bach, Mozart, Schubert, ascolti qualcosa di puro. La buona letteratura riscopre questa musica delle parole.
Parlando di dialogo non si può non arrivare a toccare l’argomento dell’attuale situazione in Medio Oriente: vede segni di un progresso nel dialogo politico tra arabi e israeliani?
La situazione è tragica. Ci sono due nazioni che vogliono vivere sullo stesso territorio, ed entrambe dicono: “questo territorio è il mio”. Noi sappiamo bene che l’unica cosa che possa risolvere questo scontro è la via del dialogo e del compromesso. Ma nello stesso tempo sappiamo che gli arabi, parlando in termini teologici, definiscono gli ebrei come dei mostri; questa idea deve per forza cambiare. Ora, poi, incombono grandi paure: in Israele si percepisce una fortissima preoccupazione per il fatto che l’Iran sta preparando la bomba atomica con l’intento di distruggere Israele, proprio come Hitler voleva eliminare gli ebrei. Quindi ritengo che solo quando si abbandonerà l’approccio della demonizzazione dell’altro attraverso argomenti teologici, allora si potrò trovare un compromesso vero, non forzato. Quello che vedo ora sono solo momenti alternati di progresso e di regresso.
(a cura di Luigi Crema e Rossano Salini)