Settant’anni fa moriva William Yeats, uno dei più grandi poeti irlandesi. Enrico Reggiani racconta le tematiche principali della sua opera affondando le radici cattoliche mai rinnegate e il nazionalismo dell’artista nei confronti della propria isola. Versi che ancora affascinano per la loro incredibile attualità

 



William Butler Yeats, poeta irlandese premio Nobel per la letteratura nel 1923, è morto settant’anni fa, il 28 gennaio del 1939. Perché vale ancora la pena di leggerlo oggi?

Perché vale ancora la pena di leggere un autore irlandese vissuto tra il 1865 ed il 1939? Direi soprattutto perché Yeats si propose – costantemente e in modo inevitabilmente personale – di opporre un’esigenza di Unity (of Being e of Culture) alle dinamiche di un passaggio di secolo in cui affondano alcune delle radici più problematicamente significative della cultura dei nostri giorni: e , non a caso, è proprio tale anelito alla completezza e all’unitarietà che – purtroppo – viene spesso trascurato dalle periodizzazioni/frammentazioni critiche (non di rado assai ideologizzate) che vengono di frequente sovraimposte alla sua vita, al suo pensiero e alla sua opera. Altrove ho ricordato che, proprio nella transizione tra XIX e XX secolo, concetti come continuità (cfr. Henri Bergson, 1859-1941) e complementarità (cfr. Niels Bohr, 1885-1962) non mancarono di trovare eco in ambito letterario-culturale, esprimendo a livello testuale la percezione dell’inadeguatezza dell’idea (scientifica) di “oggettività” e la necessità di riformulare il rapporto tra realtà, linguaggio e differenti rappresentazioni (sempre più frequentemente contraddittorie eppure allo stesso modo, necessarie) di uno stesso oggetto. Mi pare che, in Yeats, questo quadro antropologico ed epistemologico produca, ad esempio, una concezione e una rappresentazione del rapporto tra persona e comunità che va ben al di là delle rigidità di “modelli del mondo” coevi che potremmo sinteticamente definire “tardo-ottocentesco” (breviter, a dominante comunitarista) e modernista (breviter, a dominante individualista). Va da sé che tale orientamento non poté non influenzare anche le sue idee sul rapporto autore-lettore e su analoghe questioni fondative sul piano della cultura e della prassi letterarie.



Trattando della poesia di Yeats emerge di frequente il termine «spiritualismo». Cosa si intende in realtà? Che spazio ha nella sua poesia la fede cattolica e quanto, invece, una ispirazione paganeggiante e/o iniziatica?

Rispondere a questa breve serie di domande vuol dire effettivamente evocare questioni culturali e letterarie (spesso tuttora irrisolte) che provo soltanto ad accennare in questa sede. Nel 1934 Yeats definì lo spiritualism (di cui egli individuava numerose varianti aggettivate come religious e popular, old e modern, ecc.) «una delle due dottrine [la seconda era animism] che dominano la nostra psychical research»: espressione, quest’ultima, con cui la cultura del tempo indicava la ricerca sulle potenzialità “paranormali e parapsicologiche” della mente umana, compiuta in direzione generalmente antirazionalistica e antimaterialistica in quegli anni da cenacoli scientifici quali la Society for Psychical Research (presieduta da personalità di spicco e di matrice diversa quali, ad esempio, William James e Henri Bergson). La critica yeatsiana, per ragioni non sempre agevolmente comprensibili dal punto di vista ermeneutico, ha interpretato l’interesse di Yeats per lo spiritualism nel segno di una radicale opposizione al Cristianesimo: ciò nonostante le ripetute attestazioni di segno diverso offerte dal Nobel irlandese che andrebbero più attentamente valutate, quale, ad esempio, quella in cui egli sosteneva che «il Cristianesimo comincia a riconoscere la validità di esperienze che si erano manifestate prima della sua nascita e che erano, in certo qual modo, condivise dai suoi fondatori» (1935). Altrettanto consolidata è la lettura conflittuale dei rapporti tra il poeta irlandese ed il Cattolicesimo, latamente inteso: in realtà, anche a questo riguardo bisognerebbe finalmente iniziare a distinguere tra – da un lato – i suoi inevitabili pregiudizi nei confronti della Chiesa Cattolica irlandese (ben radicati nell’appartenenza alla Church of Ireland della sua famiglia, che si manifestò anche nel rito seguito per la sua sepoltura a Roquebrune-Cap-Martin nel 1939) e – dall’altro – le radici cattoliche della cultura nazionale e degli esponenti che le animavano: in realtà, queste tre dimensioni del Cattolicesimo irlandese Yeats ebbe modo – nelle diverse contingenze della storia – di apprezzare e di contrastare, di rappresentare e di fronteggiare nel tentativo di realizzare il comune progetto della costruzione culturale e politica del loro paese. E ciò – mi pare – con tale intensità umana e culturale da ribadire l’importanza della «sfida di dimostrare in modo convincente in quale misura la sua immaginazione fosse cattolica», lanciata da Michael Novak nel 2006. Dati i limiti di spazio, posso rivolgere un solo e (ahimé) sbrigativo cenno finale all’«ispirazione paganeggiante e/o iniziatica della sua poesia», richiamando una citazione metodologicamente emblematica dall’opera di Yeats (1922), che dovrebbe anche fare giustizia delle sue strumentalizzazioni new age o occultistiche, sempre ideologizzate, antistoriche e quasi sempre ispirate da malcelati fini commerciali: «Non pensavo che la filosofia di una nuova letteratura irlandese dovesse essere pagana nel suo complesso, poiché era evidente che i suoi simboli dovevano essere scelti tra tutte quelle cose che avevano più commosso gli uomini lungo molti secoli, in larga maggioranza cristiani».



Si parla anche spesso della connotazione «nazionale» della poesia e del teatro di Yeats (ne fa cenno la stessa motivazione del Nobel). È un dato reale? In che senso e come un non irlandese può gustare questa poesia?

La domanda è assai pertinente e mi obbliga nuovamente a un’estrema sintesi. Il vivacissimo dibattito sull’identità nazionale che si svolse in Irlanda negli anni di Yeats ruotò intorno a varie interpretazioni dell’idea di nazione, tra le quali la più nota presso il grande pubblico – anche per le fortune cinematografiche di Michael Collins – è forse quella più radicale e, per così dire, “etimologica”, cioè legata all’appartenenza alla nazione per nascita (nation deriva da nasci/natus). A questa sorta di “nazionalismo etnico” (che voleva estirpare qualunque manifestazione di matrice inglese dalla Emerald Isle) e ad altri nazionalismi apparentemente più ragionevoli, ma in realtà altrettanto poco disponibili alla mediazione, Yeats rispondeva articolando una sua personale declinazione dell’identità nazionale (e non nazionalistica), a partire della sua condizione di angloirlandese, che, nella sbrigativa ma icastica definizione di T. P. MacGloin, è «una persona che è irlandese per gli inglesi e, di conseguenza, inglese per gli irlandesi: la più tangibile delle entità irreali, senza un mondo proprio, un uomo senza terra».

Proprio in ragione di questa profonda matrice e di questa personale esperienza, a differenza di Joyce e di Beckett, Yeats si impegnò nelle sue opere a dar vita a un popolo d’Irlanda che fosse, insieme, una comunità unita e coesa di persone compiute, di facitori della propria storia, di protagonisti della propria cultura nel segno della Unity of Being e della Unity of Culture. Se reinterpretata secondo questa prospettiva, neppure la strumentale incompatibilità tra Irish Catholics e Protestant Ireland poteva apparire insuperabile. Anzi, paradossalmente, sembrava arricchire un traguardo che Yeats indicò negli anni immediatamente precedenti al 1916 – l’annus horribilis della rivolta di Pasqua, da cui prende appunto le mosse l’arcinoto film Michael Collins di Neil Jordan: era il traguardo di una Ireland beautiful in the memory, radicata nella mente di ciascuno dei suoi abitanti e legittimata proprio dalla irripetibile originalità del contributo della memoria dei singoli e non dalla sterile indeterminatezza e conflittualità delle masse comunque designate. Proprio questo riecheggia nella motivazione del Premio Nobel per la Letteratura che l’Accademia di Svezia gli conferì nel 1923: «per la sua poesia, sempre ispirata, che, in forma artistica assai elevata, dà espressione allo spirito di un’intera nazione» (corsivo mio).

Sul piano della concreta creazione letteraria, tale traguardo comportava l’onere di assumere come proprio testo l’intero living world – il mondo di ciò che è vivente, ovvero vivo e vitale nella realtà e nella memoria di ciascuno – e di percorrerlo senza esclusioni di sorta. E ciò valeva innanzitutto per l’Irlanda in un’ottica che potrebbe forse essere definita con un neologismo dei nostri giorni: glocal. Del suo paese e del suo popolo Yeats rappresentò la dialettica tra l’orizzonte urbano di Dublino e lo scenario rurale del western world di Sligo e dintorni; ne elaborò la complessa e dolorosa vicinanza con l’odiata/amata Albione, con l’occhio sempre proteso a scrutare le spesso controverse e contraddittorie innovazioni che venivano proponendosi nel Vecchio Continente; ne proiettò l’immagine variegata sulla scena della cultura globale, intrecciandone l’ordito occidentale con la trama di varie anime del lontano oriente. Un compito alto e ardito per quei tempi dolorosi, ma che, forse, potrebbe valere anche per i nostri e per noi.

Qual è stata la fortuna di Yeats in Italia?

I rapporti culturali tra Irlanda e Italia sono sempre stati ben più articolati e complessi di quel che, forse, potrebbe emergere da talune rappresentazioni al momento disponibili – lodevoli, beninteso, ma del tutto riduttive. Analoghe considerazioni vanno formulate anche per le relazioni tra Yeats (senza dubbio, uno dei portavoce più rappresentativi delle “things Irish” nel mondo) ed i suoi lettori italiani nel ventesimo secolo (oggi, forse, solo il fantasma del mitico guerriero Cuchulain può dire cosa accadrà nel ventunesimo…). Anche sulla ricezione italiana di Yeats non è stato, infatti, compiuto alcuno sforzo di una certa ampiezza (in realtà, sono del tutto carenti persino tentativi iniziali di analisi sistematica…) per superare la sconcertante provvisorietà di certe annotazioni critiche sparse ed impressionistiche: nella sparuta pattuglia dei contributi scientifici su questo argomento, la maggioranza ha affrontato il periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale in modo comunque approssimativo, senza neppure declinare il problema dello status quaestionis dei decenni precedenti, in cui, ovviamente, la ricezione yeatsiana in Italia affonda le sue radici. A grandi, o meglio, grandissime linee, la fortuna di Yeats in Italia (ahimé, soprattutto quella presso il cosiddetto “grande pubblico”, inevitabilmente influenzato dalle scelte editoriali delle grandi case editrici), la si potrebbe forse crudelmente sintetizzare così: i filomodernisti italiani (che sembrerebbero la maggioranza più rumorosa anche giornalisticamente) finiscono sempre per prediligere lo Yeats “novecentesco” a discapito di quello “ottocentesco”, coltivato invece da non troppi “adepti”, coccolati da case editrici che si industriano talora a pubblicarne (non sempre con la dovuta accuratezza…) gemme “vittoriane” meno conosciute. Ciò rischia di perpetuarne una fruizione tendenzialmente schizofrenica che ha origine antiche nei primi decenni del novecento e facilmente identificabili dal punto di vista ideologico: è una fruizione che, oggi come allora, incrina in modo irreparabile ciò che ho definito altrove “il sogno [yeatsiano] della complementarità”.