Nelle ultime settimane tragici casi di violenza hanno riposto al centro dell’attenzione della cronaca immigrati rumeni. Non sono mancate le semplificazioni, fino ad arrivare ad accreditare la superficiale equazione rumeno=malvivente. La realtà è molto più complessa. Ilsussidiario.net ha cercato di comprenderla meglio, interpellando tre esperti. Oggi chiediamo al professor Alberto Cova di illustrarci gli aspetti sociali ed economici.



Qual è l’entità della presenza di rumeni in Italia e quale la tipologia di questi immigrati?

Le stime recenti indicano in circa 4 milioni gli immigrati regolari di tutte le provenienze presenti nel 2007 in Italia. Di essi i romeni sarebbero da 600.000 a 1 milione e costituiscono la componente più rilevante dell’immigrazione non temporanea nel nostro paese. Essi sono seguiti dagli albanesi e dai marocchini e, via via, da tutti gli altri. Come per altre componenti del flusso migratorio, si calcola siano raddoppiati tra il 2006 e il 2007; in particolare gli occupati sarebbero passati da 263.000 a 557.000.



Particolarmente presenti nell’edilizia, i romeni svolgono lavori alle dipendenze altrui, ma una parte non piccola è classificabile fra i lavoratori autonomi nelle imprese di servizi e anche fra i piccoli imprenditori nel settore edile o delle costruzioni in genere.

Il fatto che la Romania sia stata integrata nell’Unione europea ha costituito certamente un fattore di non poca rilevanza per spiegare la consistenza dell’immigrazione in Italia, ma varrà anche la pena di considerare che quasi subito dopo la caduta del regime comunista si sono realizzati i primi trasferimenti di attività di produzione da parte di imprese italiane. Le ragioni sono note: certamente il basso costo del lavoro, la facilità della comunicazione in ragione delle affinità linguistiche e culturali. Ma credo abbia contato anche la presenza italiana nel Paese negli anni fra le due guerre; un fatto non transitorio e nemmeno eccezionale che svanì solo con il passaggio della Romania nell’orbita sovietica e in ragione della conseguente rivoluzione degli assetti socio-politici, economici, culturali e religiosi.



Economicamente parlando, il flusso dei redditi che i romeni trasferiscono nel loro paese ogni anno appare davvero rilevante, essendo stimato in 800 milioni di euro. Così come assai complessa, proprio per le osservazioni fatte circa la presenza di lavoratori dipendenti e non e di piccoli imprenditori, appare la composizione dell’intera comunità romena. Il che non consente sbrigative generalizzazioni sui loro comportamenti e sugli effetti della loro presenza in Italia.

Com’è la situazione economica attuale della Romania e cosa ha significato da questo punto di vista l’ingresso nella Unione Europea?

Ribadita l’importanza delle esperienze che, negli anni Venti e Trenta del Novecento, hanno spinto molti imprenditori italiani attivi nell’industria e nei servizi bancari a dar vita ad importanti iniziative non occasionali in quel paese, rispondo alla seconda domanda. Prescindo dall’attuale situazione di crisi per soffermarmi sui movimenti di medio-lungo periodo e sui caratteri strutturali del sistema economico romeno. E inizio con la demografia. La popolazione della Romania, secondo dati recenti, è di 22,5 milioni di persone insediate su un territorio un po’ più piccolo dell’Italia ed è quasi totalmente alfabetizzata (97,3%). Il movimento naturale si caratterizza per la notevole stabilità, con tassi di natalità e di mortalità non solo abbastanza vicini ma con una tendenziale prevalenza delle morti sulle nascite (11,5 % le prime contro il 10,6 % delle seconde), un fatto questo che, unito all’emigrazione e in assenza di tanto rapidi quanto improbabili mutamenti di tendenza, delinea un quadro di progressiva riduzione della popolazione complessiva.

Il valore della ricchezza prodotta (il PIL lordo annuo) è stimato, secondo fonti USA, 214 miliardi di dollari USA (dato stimato per il 2008) e il PIL pro-capite in 12.500 dollari all’anno, un valore straordinariamente elevato se si considera che nel 2000 era calcolato un ottavo circa. Ma questo fatto non può sorprendere più di tanto perché dal 2001 l’economia romena ha cominciato a crescere vigorosamente (nel periodo immediatamente precedente lo scoppio della crisi attuale, il tasso di crescita del PIL era stimato pari all’8%).

Dal punto di vista strutturale, l’economia romena pare avere assunto i caratteri comuni ad altre economie occidentali, con una composizione settoriale del reddito prodotto che vede al primo posto le attività di servizi (56%), al secondo le industrie (36%) e al terzo l’agricoltura (8%) che sembra avere concluso la sua parabola discendente anche se la consistenza della popolazione occupata in questo settore si mantiene un po’ troppo alta (29% dell’occupazione totale contro il 23,2 % dell’industria e il 47,1% dei servizi).

L’ingresso nell’Unione europea (e, quando sarà il momento, l’entrata nell’area dell’euro) non ha mancato di produrre effetti positivi sull’economia romena così come li aveva prodotti già all’epoca della CECA e poi della CEE in Italia e negli altri cinque paesi fondatori. Un mercato più ampio, la libertà di movimento delle merci, degli uomini e dei capitali, un ordinamento decisamente ispirato alla libertà di intrapresa all’interno di regole capaci di garantire l’interesse generale di una comunità in via di progressivo allargamento, spiegano bene la relativa rapidità della rinascita della Romania dopo quasi mezzo secolo di “socialismo reale” sperimentato sulla pelle della gente.

Com’è evidente la possibilità di trarre tutti i vantaggi possibili dalla nuova condizione dipenderà moltissimo dalla capacità di dare risposte coerenti rispetto alla sfide portate dall’integrazione dei sistemi e degli ordinamenti.

Da questo punto di vista un contributo importante potrà essere dato da un’agricoltura che, liberata dalle costrizioni del modello “bolscevico”, potrà sfruttare l’abbondanza delle terre coltivabili e fertili e, dunque, alimentare il mercato dell’intera Unione ma anche da un apparato produttivo dotato di risorse naturali non modestissime, come i minerali di ferro, il carbone e anche il petrolio (le cui riserve sono in diminuzione) e il gas naturale che, comunque, non appaiono abbondantissimi come si pensava negli anni Trenta. Risorse che alimentano le industrie minerarie, tessili, metallurgiche, meccaniche ed elettromeccaniche, chimiche e delle costruzioni,

Per un popolo dalle profonde radici «latine» l’integrazione in Italia dovrebbe essere relativamente semplice. Perché, invece, il rumeno ci sembra particolarmente estraneo?

Circa la questione dell’integrazione difficile, non possiedo gli strumenti analitici per spiegare il fenomeno. Osservo che la Romania si caratterizza per la relativa varietà dei gruppi etnici che convivono sul territorio e che sono costituiti dall’etnia latina, assolutamente prevalente con un 89,5% del totale e dalle minoranze, tutt’altro che irrilevanti, dei magiari (6,6% del totale), dei Rom (2,5%) e degli altri gruppi minori tra i quali i tedeschi, i russi, i turchi.

Si tratta di gruppi che, anche per ragioni politiche non troppo remote (penso alla sistemazione dell’Europa decisa a Versailles dopo la “Grande Guerra Europea” che portò allo smembramento dell’Ungheria e al passaggio della Transilvania e della sua notevole componente magiara alla “Grande Romania”) non dialogano troppo facilmente soprattutto per quanto concerne la comunità dei Rom che hanno difficoltà di integrazione nella stessa Romania (e figuriamoci in Italia), difficoltà che non datano sicuramente da ora.

Rilevo che, con una comunità romena che, da noi, ha la consistenza sopra richiamata, ammettendo che i tassi di criminalità siano nella norma, non è difficile che al suo interno vi siano delinquenti in numero non del tutto irrilevante, autori di quei delitti particolarmente efferati che hanno suscitato reazioni piuttosto violente di rigetto.

D’altra parte, se è vero che l’Italia è un paese nel quale, come è stato scritto nei giornali, si emettono quasi quattromila provvedimenti di espulsione ma non se ne esegue praticamente alcuno e se è anche vero che è possibile essere recidivi senza fare un giorno di galera, non si fatica ad immaginare che fra gli immigrati, romeni o non romeni, vi sia una quota “anormale” di delinquenti abituali o potenziali proprio perché in Italia, terra del grande Beccaria, vi sono delitti ma non pene ad essi corrispondenti.

In ogni caso, per tornare alla domanda, gli elementi che dovrebbero favorire un pacifico inserimento dell’immigrazione romena sono più di uno e superano o, quanto meno, integrano le stesse affinità culturali. Se si guarda alla religione, accanto alla relativamente esigua componente cattolico-romana (costituita soprattutto dalla comunità magiara) vanno collocati i greco-cattolici, assolutamente maggioritari almeno sino al 1945, la cui Chiesa essendo in piena comunione con Roma, è parte della Chiesa Cattolica romana e questo costituisce un elemento non irrilevante agli effetti dell’integrazione.

Ma poi vi è la circostanza che un gran numero di romeni non solo lavora regolarmente ma ha contribuito alla creazione di nuove imprese, piccole o grandi che siano con questo creando possibilità di lavoro anche agli italiani. E questo fatto vieta di operare infondate generalizzazioni criminalizzando un’intera comunità.