Sono passati soltanto quattro anni dalla scomparsa di Giovanni Paolo II. Eppure è già possibile una impressione più distaccata, consapevole, del peso che il suo lungo pontificato ha avuto nella storia della Chiesa. Un pontificato che, per estensione, ha coperto un numero di anni secondo soltanto a quello di Pio IX. Iniziato negli anni del terrorismo italiano, è terminato dopo la fine della guerra fredda, nell’epoca delle guerre americane contro il terrorismo internazionale. Un lunghissimo periodo anche per la storia della Chiesa: ancora segnata dalle profonde difficoltà del post-Concilio, è stata percorsa in lungo e il largo da Giovanni Paolo II attraverso le sue centinaia e centinaia di viaggi, per portare ad ogni continente, ad ogni popolo, la certezza di una fede che sembrava smarrita, coniugata con la difesa dei diritti degli uomini e dei popoli. Un’impresa titanica che appare in tutta la sua visibilità nell’immenso numero di pagine del magistero di Giovanni Paolo II, nella quantità di argomenti trattati, nel numero di discorsi pronunciati.
Dietro a tutto questo non stava una macchina, ma un uomo vero. Un uomo certamente dotato di doni particolari: la conoscenza delle lingue che lo rendeva capace di parlare direttamente ad ogni uditorio, l’abilità oratoria che aveva ereditato dalla sua antica esperienza di attore, la finezza nell’uso della parola che l’aveva reso poeta, l’attitudine filosofica di penetrare gli strati più profondi della vita dell’uomo. Ma il centro di tutto questo era l’incontro con Cristo, venuto a lui dalla tradizione della sua famiglia e del suo popolo. Una signoria, quella di Cristo, avvertita da Karol Wojtyla come fonte di gioia e di sicurezza, di pienezza umana, fonte perciò di coraggio, di proposta, e anche di provocazione.
Ma Cristo era per Giovanni Paolo II soprattutto una persona incontrata e viva, un “tu” con cui dialogare, il Dio fatto uomo che lo aveva chiamato a non avere più niente per sé, e a donare tutto se stesso per farlo conoscere agli altri uomini.
Giovanni Paolo II era un uomo positivo e coraggioso. Veniva da lontano, come lui stesso disse appena dopo la sua elezione, e desiderava che questo lontano diventasse vicino, voleva far sì che iniziasse un nuovo rapporto fra l’oriente e l’occidente dell’Europa. Amava dire che l’Europa avrebbe dovuto tornare a respirare a due polmoni. Con questa intenzione scrisse molte encicliche e documenti, e fu anche disposto a ridiscutere l’esercizio storico del ministero petrino. Purtroppo non riuscì ad andare fino a Mosca, forse perché le comuni origini slave, anziché facilitarlo, resero più arduo l’ascolto reciproco.
Voleva che ogni punto della Chiesa si sentisse centro e non periferia. Per questo ha viaggiato così tanto, forse più di ogni uomo mai apparso sulla terra. Resistette fino a quando le condizioni fisiche lo permisero.
Ogni sua apparizione sullo schermo costituiva un grande evento. La sua capacità di colpire era al servizio della testimonianza. Parlava alle folle, ma sembrava sempre parlare ai singoli. Come quando, a tavola con don Giussani, in Vaticano o a Castel Gandolfo, lo vedevo rivolgere domande, curioso di sapere, attento ad ascoltare, per captare ogni nuovo evento, ogni nuova parola che potesse giovare alla sua comprensione dell’uomo e alla sua missione.