Volevano vivere il Cristianesimo in una forma vocazionale non riconducibile a quelle canoniche della vita sponsale o del monacato. Si erano impuntate nel trovare la loro adeguata collocazione all’interno della Chiesa, praticando liberamente la castità e la povertà senza, tuttavia, farne voto esplicito. Conducevano un’esistenza fatta di preghiera e lavoro, ascesi e carità. Si tratta delle beghine. Un termine parecchio screditato, oggi sinonimo di persona intransigente e bacchettona che ben poco ha a che fare con la vivacità delle beghine dell’epoca. Ha scritto di loro Dieudonné Dufrasne in Donne moderne del Medioevo – Il movimento delle Beghine (Jaca Book, pag. 172, Euro 16). Il fenomeno è inquadrato dal padre benedettino nel contesto della riforma spirituale medievale e la loro iniziativa ricondotta alla medesima volontà che portò alla nascita dell’ordine dei Domenicani e di quello dei Mendicanti. La letteratura non è particolarmente ricca di elementi biografici e cronologici precisi, ma Dufrasne si sforza di recuperarne gli antecedenti culturali. Si sa che, intorno al XII secolo, specie nel nord Europa, molte donne, vedove di guerra – ma anche provenienti dai ceti aristocratici e benestanti – incominciarono a riunirsi in comunità. Queste si evolsero, talvolta, in vere e proprie cittadelle, altre continuarono a consistere in un semplice cortile, circondato dalle case, al centro del quale risiedeva la chiesa. Di norma un sacerdote, la guida spirituale, abitava poco distante dal beghinaggio. Si dedicavano all’assistenza dei poveri e dei malati, alla cura delle donne sole e al ristoro dei pellegrini. Erano una sorta di moderne suore laiche, sovente giovani e ribelli, che ritenevano importante al di sopra di tutto l’imitazione di Cristo. E in Cristo si immedesimavano mediante la rinuncia ai beni terreni e nella verginità, rifiutando di prendere alcun voto per privilegiare la riproduzione costante di un atto di libertà. A loro avviso, era ben più edificante uno sforzo interiore del genere, che la perenne privazione “obbligata” di chi prendeva i voti in maniera definitiva. Dufrasne tratta le “pie donne” con evidenti toni apologetici, ma non omette alcuni aspetti ambigui e problematici che le riguardavano. Furono, infatti, a più riprese, definite eretiche e settarie o, al contrario, accettate – più o meno informalmente – dalla Chiesa. Nel 1233 Gregorio IX le riconobbe con la bolla Gloriam Virginalem. Nel 1312, il loro movimento venne condannato dal sinodo di Vienna, sotto Clemente V, per poi veder ritirata la condanna sei anni più tardi, da Giovanni XXII. Sempre in bilico tra l’eterodossia e il persistere nella corretta dottrina, non diventarono mai un ordine, ma rappresentarono senza dubbio un evento religioso degno di interesse e segno dei tempi. Consideravano il rapporto con Dio come fonte di godimento spirituali, a tratti carnale. Ostinate nel vivere il rapporto con Cristo “senza mediazioni”, le beghine erano spesso teologhe e mistiche. E della loro esperienza mistica ne parlavano in termini amorosi, non di rado secondo in canoni della poesia provenzale. «Se l’Amore vuole tutto l’amore, / si doni tutto!/ Ma non secondo i miei desideri/di cui conosco la pochezza, / anche se per ottenerlo/ la mia povera anima si divora», ha scritto Hadewijch di Anversa, tra le beghine più note e influenti nel XIII secolo, a cui Dufrsne dedica ampio spazio, assieme a Mectilde di Magdeburgo e Margherita Porete. Al di là dei particolari dottrinali, ovviamente non trascurabili in un contesto cattolico, dal movimento emerge un aspetto estremamente significativo, ben messo in luce da Dufrasne. Il fatto che le beghine colsero nell’amore, così come lo intendeva Agostino, il motore del loro essere cristiane. Intendendo la conoscenza stessa di Dio come moto affettivo. E la realtà, anzitutto quella comunitaria, come il luogo in cui dar vita esteriormente al loro mondo interiore, in una dimensione che non fosse separata dal mondo.



(Paolo Nessi) 

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