La questione della “posta in gioco nella battaglia biopolitica” – indicata da due interventi di M. Niola e R. Esposito apparsi su La Repubblica pochi giorni dopo la morte di Eluana Englaro – pone l’interrogativo su quale sia l’istanza morale assoluta che protegge il singolo dalle pretese del potere (R.Guardini). Oggi siamo di fronte a un profondo rivolgimento teorico, per cui improvvisamente la nozione di persona gioca un ruolo fondamentale nella distruzione dell’idea che gli uomini, proprio in quanto esseri umani, avrebbero dei diritti e una dignità inviolabile. Così, in nome delle “dignità della persona” si uccidono degli esseri umani. Infine il discorso sulla dignità della persona e sulla sua adeguata fondazione, ci riconduce sempre allo stesso punto: a chi appartiene l’uomo, a chi appartengo io? Solo “l’ipotesi della trascendenza”, la “dipendenza dal mistero come costitutiva del valore dell’io”(Giussani), costituisce una fondazione adeguata della dignità della persona, che protegge il singolo dalle pretese del potere.
Come è possibile che questa affermazione o ipotesi della trascendenza, che costituisce la punta di diamante del pensiero occidentale e la stessa origine dell’idea di persona, venga distrutta, cancellata dalla coscienza dell’io e di un’intera società o cultura?
Il sociologo americano Peter Berger sostiene che: «Il fondamentale potere di coercizione di una società non risiede nei suoi meccanismi di controllo sociale, ma nel suo potere di costituire e imporre se stessa come la realtà. La legittimazione come pretesa di definizione della realtà non è solo questione di valori, essa implica sempre anche la conoscenza» (P. Berger, The Social Construction of Reality: A Treatise in the Sociology of Knowledge, 1967, 92).
Il problema è sempre, anzitutto di conoscenza: di un modello (relativo), di un punto di vista (parziale), di una interpretazione (riduttiva) che si autodefinisce e si impone come realtà, tutta la realtà e l’unica realtà. Tanto per fare un esempio direttamente rinvenibile negli articoli di La Repubblica: entrambi gli autori a un certo punto introducono espressioni del tipo “minimo comune denominatore biologico”, “nuda vita” e il linguaggio vagamente scientifico di cui si ammantano tende a comunicarci l’impressione che stiamo toccando qualcosa di reale, che stiamo camminando sul terreno solido della “realtà oggettiva”. Ma a che cosa corrispondono veramente queste espressioni? Dove mai incontriamo, vediamo, tocchiamo il “minimo comune denominatore biologico”, la “nuda vita”? La vita, come ricorda Hans Jonas, si presenta sempre a noi, in tutte le sue espressioni, anche le più elementari, «con l’abito di gala», di infinite e irriducibili qualità e differenze, spesso meravigliose e affascinanti, talvolta terribili e spaventose, sempre stupefacenti. Non è mai amorfa, nuda, semmai “denudata” «per ben ponderati fini conoscitivi e […] in funzione di un determinato modello di sapere» (Hans Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio di responsabilità, 1997, 61), cioè, per le esigenze metodologiche di oggettivazione scientifica, di misurazione esatta e riproducibilità sperimentale. La “nuda vita” non corrisponde ad alcuna esperienza, è un postulato, «l’estrapolazione concettuale al limite di una serie di osservazioni empiriche», come dice Giorgio Israel a proposito del principio di inerzia, che costituisce il fondamento della meccanica classica e il cuore concettuale del riduzionismo metodologico della scienza moderna (G. Israel, Medicine between Humanism and Mechanism, JMP, 1/2008, 6). Il riferimento di Esposito a Xavier Bichat, uno dei fondatori della medicina scientifica moderna, per chi abbia qualche nozione della storia della medicina e del suo, controverso statuto epistemologico, è, in questo senso, assolutamente emblematico. Comunque, la “nuda vita”, il “minimo comune denominatore biologico”, il corpo/oggetto, pura “cosa”, di volta in volta identificato con la “mera fisiologia”, o vanificato nel flusso proteiforme delle interpretazioni simboliche e dei valori culturali – i due lati assolutamente simmetrici e necessariamente complementari della stessa riduzione -, non sono esperienze, “realtà”, sono concetti, così come un concetto, filosofico-politico, è l’individuo autonomo, come autoposizione assoluta di una volontà formale, vuota, che si attualizza unicamente nella scelta e nella rivendicazione di diritti. Sono concetti entro certi limiti funzionali a legittime esigenze metodologiche e conoscitive, oltre certi limiti letteralmente “creatori di idoli”, in senso biblico, o, per usare un’espressione più attuale, creatori di ideologie.
Corpo/oggetto e coscienza/soggetto così concepiti, concettualizzati, rappresentano due elementi centrali di quella che G. Maddalena , in un intervento su ilsussidiario.net di qualche tempo fa, indicava come la “koyné naturalistica” che definisce la cultura dominante, filosofica e non solo, del nostro tempo e si esprime nel paradigma del “mondo causalmente chiuso”: una visione in cui la realtà non funziona mai come “segno” e, perciò, la ragione, smarrita la sua essenziale funzione analogica, si riduce a misura, calcolo razionale. In effetti, il punto focale, il perno, su cui si regge l’ipotesi della trascendenza è l’esperienza della realtà come segno, che innesca la dinamica affetivo-conoscitiva dell’io, la dinamica della libertà e della ragione alla ricerca del significato, di ciò cui il segno rimanda. Ciò che in me, nel rapporto con la realtà, sperimento come limite è, secondo l’espressione classica della filosofia e della teologia, segno della “contingenza”, termine che indica una nozione concettualmente più ricca e profonda di quella di limite ed anche esistenzialmente più densa, più vicina alla nostra esperienza. Contingenza significa, appunto, il carattere di una realtà che non ha in sé la ragione del suo essere, non ha il potere di farsi: io non ho il potere di farmi, non mi faccio da me, dunque sono fatto, dipendo all’origine e in ogni istante da una sorgente, da un quid, che è altro da me, dalla realtà che sperimento – “trascendente” -, che è la realtà nel senso più pieno, l’essere vero, che ha il “potere” nel senso più radicale, il potere di trarre dal nulla. Proprio la “realtà” del corpo, ciò che noi veramente sperimentiamo come dimensione della nostra esistenza personale, condizione nel duplice senso di limite e possibilità, il fatto di nascere e morire – prima non c’ero, ora ci sono, domani non ci sarò –, l’evidenza del mutare nel tempo, della fragilità, vulnerabilità, dipendenza, più o meno grande, ma realisticamente inevitabile, l’evidenza della finitudine, del nostro niente, che continuamente ci assedia e di cui la malattia, come ha affermato un grande medico, Edmund Pellergrino, è un “brutale promemoria”, insieme all’inesauribile esigenza di vivere, di bene, di felicità, di ragione, di giustizia, di compimento, sono segno di questa contingenza, che non segna solo il corpo, ma tutto l’io, definendone ad un tempo il limite e la trascendenza: quella continua, inesauribile “sporgenza” del cuore – «l’incondizionata esigenza del bene e del ragionevole che si afferma nell’uomo [e] non è connessa a un destino naturale, [non è] una faccenda di geni e di educazione» (R. Spaemann, Persone, 22-23) – che definisce, appunto, originariamente la persona.
Ricordare che il problema è anzitutto di conoscenza non significa consegnarsi ancora una volta al relativismo delle interpretazioni o alla rassegnata constatazione della nostra impotenza nei confronti dei meccanismi impersonali – i “processi di normalizzazione” – di un potere che «squalifica […] la nostra umanità, fin le radici dei nostri pensieri, dei nostri sentimenti, che sono dettati a nostra insaputa » (Giussani, La crisi dell’esperienza cristiana, 24). Può aiutarci a intuire la radicalità del problema e, quindi, a formulare in maniera più vera e adeguata la domanda davvero essenziale, cogliendo tutto lo spessore e l’intensità di una risposta già presente: l’esperienza di una appartenenza che (ci) libera.
«A noi, a questo punto – momento in cui si nota l’imperversare del potere che squalifica la nostra epoca e la nostra umanità, fin le radici dei nostri pensieri, dei nostri sentimenti, che sono dettati a nostra insaputa – che cosa manca, che cosa manca a una sensibilità umana vigile? Manca una cosa, la coscienza del carisma […] Noi cristiani non abbiamo l’esperienza che ci dica, che ci faccia sentire esistenzialmente, l’appartenenza nell’oggi a Cristo […] vale a dire l’esperienza della appartenenza alla Chiesa come avvenimento.» (Giussani, La crisi dell’esperienza cristiana, 24)
P.S. Non credo che nessuno, neppure chi oggi lo sostiene come unica alternativa politicamente percorribile alla jungla, si illuda che il testamento biologico sia realmente una soluzione. Tanto per restare nell’ambito degli esempi, così cari ai bioeticisti, il 21/2/2009, più o meno negli stessi giorni in cui venivano pubblicati gli articoli di Repubblica, sull’edizione on-line di Telegraph (Telegraph.co.UK) compariva un pezzo di Wesley Smith, dal titolo più concretamente urgente degli omologhi italiani: Il “diritto di morire” può diventare un “dovere di morire”. La storia è questa: Barbara Wagner e Randy Stroup, due cittadini dell’Oregon, stato americano in cui il suicidio assistito è legalizzato, sono malati di cancro in fase terminale, dipendono entrambi da Medicaid, il piano di assicurazione sanitaria statale per i poveri. Nel 2008 richiedono il sostegno per le spese necessarie per cure chemioterapiche che, se non possono guarirli, possono almeno prolungare la loro vita, cosa che evidentemente, al di là di tutti i calcoli sulla qualità della vita e di tutte le considerazioni “pietose” di quelli che per eliminare la sofferenza auspicano di eliminare i sofferenti, essi stessi considerano un’opzione desiderabile. Notiamo, inoltre, che neppure Maffettone o Parfit potrebbero, in base ai loro criteri, negare a questi esseri umani lo status di persone aventi diritti: sono adulti, perfettamente consapevoli, non sono “feti”, e neppure, al momento della richiesta, privi di coscienza. Qui, il “soggetto” abita ancora senza alcun dubbio il corpo, non c’è bisogno di discutere su chi sia il “proprietario naturale”. Il loro unico handicap è che sono malati e non hanno i soldi per le cure. La loro volontà non si esprime in una dichiarazione rispetto a circostanze lontane e solo indirettamente ipotizzabili, un “testamento”, ma in una precisa richiesta rispetto a una circostanza presente e direttamente sperimentata. Entrambi ricevono la stessa risposta: le risorse economiche, si sa, sono limitate e la spesa prevista per la cura risulta ingiustificata rispetto alla quantità limitata di tempo (extra-time) che potrebbe garantire. Tuttavia, dal momento che lo Stato non è del tutto insensibile alla pietà, ad entrambi viene assicurato che, non appena si sentano pronti, verrà loro garantito ben volentieri il sussidio economico necessario a coprire le spese del suicidio assistito. La signora Wagner, che ora è morta, quando il suo caso è diventato di pubblico dominio, ha ricevuto gratuitamente i farmaci dalla casa produttrice. Il caso del signor Stroup è stato impugnato in tribunale. Nessun commento mi sembra necessario.